Tadcaster

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Questo lo dedico a mia nonna, alla mia famiglia...e a me, nella speranza che riesca a ricucire la ferita che mi è stata inferta. Ti voglio bene.

Fuori di casa, la realizzazione di ciò stavo facendo mi colpii con la potenza di uno schiaffo. Fu l'aria gelida, immagino, ma io tremavo per altro.
Così guardai il cielo e mi persi in quel manto di nero velluto costellato di occhietti argentei, i quali sembravano rimproverarmi per la mia scarsa avvedutezza.

Mi chiesi cosa stavo cercando di fare, in quale angolo di mondo desiderassi rifugiarmi. Il litigio era ancora fresco nella mia mente, e il sangue, sebbene non macchiasse più la mia pelle, era stato assorbito dall'epidermide insieme al terrore. Dunque mi convinsi a proseguire.

Raggiunsi la stazione ferroviaria di Londra che era mezzanotte passata. Occhi curiosi mi squadravano passo passo; osservavano me, la mocciosa spettinata che a testa bassa strascicava i piedi sul cemento, spaurita, confusa ma decisa ad essere inghiottita dall'oscurità - quella calca mi puntava come se mi trovassi al centro di un'arena e non sullo sporco binario di una stazione, in attesa di un treno che non sapevo dove mi avrebbe portata.

O meglio, lo sapevo. Ma ignoravo volutamente la portata di ciò che stavo facendo, stringendo tra le dita tremanti quel biglietto giallo pallido. Dunque me ne stavo lì, seduta su una gelida panchina, il borsone stretto gelosamente tra le braccia esili e lo sguardo puntato a terra. Mi domandai se mamma mi stesse guardando e che cosa pensasse della mia fuga spicciolata. Probabilmente avrebbe riso di me, oppure con me - forse mi avrebbe accompagnata.
Tentai di rassicurarmi. Di supportarmi, ché credevo fermamente in quel viaggio confuso alla scoperta di me stessa.

Salii sul treno da sola, terrorizzata dagli occhi di persone poco affidabili, indurendo lo sguardo, serrando la mascella.
Poi, a poco a poco, quando il treno iniziò a sibilare e a stridere sui binari, mi sentii riempire di un certo vigore. Era forse una strana eccitazione, un forte senso di libertà che andava espandendosi via via che il mostro ruggente acquistava velocità.

Abbandonata a me stessa, con poche cianfrusaglie strette al petto, senza alcuna idea di ciò che mi attendeva: eppure non mi era mai sentita così viva, così...trepidante.
Tremavo, tremavo per il dolore ma per quello strano calore che mi colorava le guance e le labbra, per la speranza che aumentava in diretta proporzione alla distanza che si inseriva lasciva tra me e Alex Dekker e il fantasma di mia madre.

Eppure avevo paura. Eccome se ne avevo. Per la prima volta nella mia vita ero costretta ad affrontare di petto i miei problemi, quei nodi venuti al pettine dopo anni di silenzio. Io che non sapevo neanche rifare un letto. Io che, viziata, non avevo mai mosso un dito in diciotto anni di vita - né per me né per gli altri, spettatrice e burattino, estranea a me stessa. Quindi di botto venivo strappata via da uno sfondo idilliaco di pigrizia e silenzio e gettata nel mondo di tutti i giorni con poche nozioni sulle spalle e tante domande ad agitarsi tra le pareti dure del cranio.

Giunsi a Leeds allo scoccare delle tre. Il treno ruggì, poi sibilò tremando. Infine si fermò. E così fece il mio cuore. Si bloccò tra le costole, sotto lo sterno, dimenandosi impazzito quando mi alzai con le ginocchia che tremavano. Fuori dalla stazione ferroviaria mi sentii totalmente sola e abbandonata, gettata sul marciapiede come il filtro di una cicca consumata, e per un attimo mi colse il desiderio vertiginoso di tornare sui miei passi.

Eppure...eppure io credevo troppo in quello che stavo facendo, speravo che la vita vera non fosse quella che conducevo a capo basso nella dimora di mio padre - o non avrebbe avuto senso continuare.

Alle tre e mezzo del mattino spalancai titubante la porta d'ingresso di un piccolo motel: un leggero tintinnio seguì quel movimento e mi grattò le orecchie tese.

sangue nell'acqua [hs]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora