𝟐.

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All'alba in spiaggia non c'era nessuno tranne noi due e i gabbiani.

Lei sarebbe stata perfetta sia che fosse arrivata in ritardo, scusandosi in modo troppo frettoloso e con il fiatone, sia che fosse stata già lì ad aspettarmi, ma ovviamente arrivò in anticipo.

- Se il bagnino non c'è come lo noleggiamo il pedalò? - lo chiesi a bassa voce, spostandomi gli occhiali da sole in cima alla fronte.

- Glieli diamo dopo, i soldi - lei rispose ad alta voce, fissando un punto indefinito dietro di me.

Il cielo era ancora buio, anche se la notte stava iniziando a lasciare spazio a una tinta violacea che preannunciava l'inizio del giorno. Il profumo del mare era inebriante e più forte che mai, il rumore delle onde una melodia che, in quel silenzio crepitante, sembrava quasi fin troppo fragorosa.
Erano le quattro del mattino.
E io ero con Marina, i nostri piedi immersi nella sabbia ancora fredda, in attesa di essere scaldata dal sole.
Le tremavano un po' le gambe, mentre si avvicinava al pedalò.
Come se avesse paura.
Indossava una gonna di jeans con i bottoni sul davanti, una canottiera giallo senape e gli occhiali dalla montatura scura che non le avevo mai visto addosso. Sulle spalle portava uno zaino di tela bordeaux.
Niente scarpe.
Sembrava una fuggitiva o una naufraga, una principessa perduta, e mi faceva venire voglia di chiederle da dove vieni? mentre osservavo tutto quello che faceva, le dita che cercavano di mettere a posto i capelli o le labbra che si increspavano per qualcosa che non mi era dato conoscere, probabilmente un pensiero che l'aveva attraversata per caso.

Trascinammo la barca fino alla riva, e la spingemmo fino a quando l'acqua non bagnò l'orlo della sua gonna. Sembrò non curarsene. La gonna le stava bene. Le fasciava la vita stretta e poi i fianchi più larghi. La canottiera aderiva ai suoi seni mettendoli in mostra dolcemente. Vedevo quella ragazza come una copia impossibile e malinconica della Venere allo specchio di Velàzquez.
Enigmatica.
Io avevo addosso una camicia e i soliti pantaloncini di jeans chiari. Le piaceva, la mia camicia, a volte il suo sguardo si perdeva un po' su di me, assorto, con una trasparenza che ancora mi era inconcepibile.
Me lo ricordo. Ho memorizzato ogni suo particolare in ogni suo attimo, e ogni mio particolare in relazione agli attimi che condividevo con lei, ai suoi attimi che diventavano miei, ai miei che diventavano suoi, a tutto che diventava nostro.

Andai per prima e la aiutai a salire sul pedalò, forse solo per dimostrarle che sapevo prendermi cura di lei. Mi ringraziò con un battito delle ciglia lunghe e scure. La sua mano era liscia, e i suoi capelli profumavano di ciliegia e camomilla.

Le spiegai come pedalare e far prendere una direzione a quella specie di minuscola nave, anche se in realtà in tutto quello non c'era proprio niente di difficile, e la mia spiegazione era, ne ero cosciente, perfettamente inutile. Ma lei mi ascoltava rapita, come se tutto dipendesse da me in quel momento, come se fossi il centro dell'universo - mi intimidiva, nonostante cercassi di non darlo a vedere.
Iniziammo a pedalare e ci spingemmo più a largo. Le boe bianche e arancioni davanti a noi erano piuttosto lontane dalla riva, le onde ci cullavano sbattendo con tenerezza contro al pedalò, come per accarezzarlo.
Lei tremava ancora.

- Hai paura? - le chiesi, vedendo che si torturava le labbra di rosa con i denti.

- Un po' - ammise subito, corrugando le sopracciglia - Non sono mai stata così lontana dalla spiaggia.

Guardò indietro, alla terra, a quello che aveva desiderato lasciarsi alle spalle e che adesso forse rimpiangeva. Ma no, subito nei suoi occhi ci fu un moto di determinazione, e di scatto si voltò di nuovo verso il mare e l'orizzonte senza fine.
Forse era abituata a lasciare.
O a essere lasciata.
Io aspettavo segretamente che i primi raggi del sole accendessero il suo viso di mille tinte e tratti diversi, illuminandola nel suo intricarsi.

𝓶𝓪𝓻𝓲𝓷𝓪Where stories live. Discover now