𝟏.

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I suoi occhi erano come il mare.
Eppure non erano azzurri.

Erano l'acqua in tempesta, la schiuma bianca, quel nero profondo che inghiotte, risucchia, trascina, gorgoglia, e il rollio della nave che tenta di mantenersi in equilibrio e lo scalpiccio delle vele, il cigolio del legno che solca le onde, le grida dei marinai e la campana che suonava l'allarme, i passi affrettati sul ponte di comando; i suoi occhi erano lo sciabordio di un oceano in guerra, il grigio del cielo plumbeo, il fragore dei tuoni, il bagliore bianco e celestiale dei fulmini, il modo in cui, diramandosi, sembravano tingere le nuvole di viola.

Altre volte, invece, la giocosa schiuma delle mareggiate dolci, le alghe, la sabbia che corre veloce e si infila sotto i piedi, i pesci che nuotano, il cielo di un azzurro brillante, le nuvole bianche color panna, e i costumi colorati delle persone, gli spruzzi, il profumo della salsedine, e allora le iridi si colmavano del sole che scottava la gente, e di tutti i colori, i profumi, le risate delle persone, degli ombrelloni colorati, delle barche a noleggio rosse, bianche, verdi, gialle, allora si coloravano d'estate, di una luminosità speciale, giocosa, scoppiettante ed emozionata, curiosa, quasi bambina.

Altre volte ancora, erano l'acqua distesa e piatta dei giorni senza vento, le passeggiate in quella terribile e meravigliosa solitudine, il suono delle onde sul bagnosciuga e il loro allargarsi, e il cielo vuoto, grigio o blu, o tutti e due insieme, e poi lo stridere dei gabbiani, l'odore di sè e di tutti i frammenti di ricordi riemersi, il colore delle conchiglie e delle stelle marine essiccate al sole raccolte in una sacchetto ancora incrostate di sabbia, il suono dell'acqua prigioniero dentro un mollusco madreperlaceo, e le case e gli hotel, e le sdraio vuote, gli ombrelloni chiusi, i moli di legno scuro che sembrano rovine abbandonate.

I suoi occhi erano come il mare.
Eppure non erano azzurri.

Non li avevo mai saputi decifrare, ma lei i miei li aveva sempre conosciuti fin troppo bene.
Questa cosa mi infastidiva e mi affascinava.

I suoi occhi erano come il mare, ma lo contenevano tutto, in un certo qual modo, dal punto più profondo e inesplorato, un punto indefinito e blu profondo nel bel mezzo del Pacifico, ai litorali chiari delle località di villeggiatura troppo affollati e chiassosi. E poi le scogliere bianche di Dover e le spiagge con i sassi lisci che fanno male ai piedi, e la fredda acqua della Normandia, e i tropici con le palme.

I suoi occhi erano mare e mondo, mare e terra, il mare nelle sue sfumature e nelle gradazioni più impensabili, il mare in tutti i colori.
Di una sincerità e di una trasparenza impertinenti, perchè si mostravano senza paura anche quando erano torbidi, quando qualcuno ci era passato in mezzo e aveva messo tutto a soqquadro, quando lei stessa scombinava tutto sotto sopra, perchè a volte, come mi aveva sussurrato piano, solo a volte, si sentiva come se l'autodistruzione fosse inevitabile.

Non so se si possa dire che l'ho conosciuta per caso.
Non l'ho mai conosciuta.
O almeno non in questo senso della parola.
L'ho guardata, e quello è stato l'inizio.

Sapevo che non era di qui.
I suoi occhi erano come il mare, ma non veniva dal mare.

Veniva dalla città.
Dalle strade d'asfalto, quel caldo soffocante e gli edifici di metallo, l'aria artificiale del condizionatore, forse il Duomo, la metro colma di persone sudate. La Scala e Brera con la statua di Napoleone, Parco Sempione, le mostre a Palazzo Reale e Corso Buenos Aires con chilometri e chilometri di negozi.

Raccoglieva le conchiglie chinandosi di tanto in tanto mentre camminava sulla riva, entrando qualche volta nell'acqua, ma solo fino ai polpacci.
Aveva un costume a righe bianche e blu che le metteva in risalto il seno, e quelle splendide fossette sulla schiena che sembravano sorridermi.

Io ero una ragazza acerba, suonavo la chitarra per i miei amici e, mentre gli altri cantavano, fumavo una sigaretta per unirmi a loro nel ritornello.
Mi ricordo i miei pantaloncini di jeans, gli occhiali da sole con le lenti rosse, i capelli corti incrostati di salsedine per il bagno che avevo fatto a mezzogiorno.

La vidi e fu mia.
Mi sorrise.
Aveva i capelli ricci che andavano da tutte le parti, non aveva un cappello e sembrava avesse una rosa al posto delle labbra.
Feci un tiro.
Solo per vedere se la impressionavo.
Cercando di far finta di niente.
Ma lei era troppo furba, se ne accorse e si mise a ridere, lì sulla spiaggia.
Si sentì una voce.

Marina?

- Sono qui!

Probabilmente gridò, ma io non sentii nulla.

Il giorno dopo la cercai e la trovai quasi immediatamente.
Questa volta ero sola.
Lei era seduta sul molo, guardava verso il basso, dove c'erano i pesci e le alghe verde smeraldo.
La fissai da lontano, mi avvicinai con un'altra sigaretta tra le labbra.

- Ciao - fu lei a salutarmi, un occhio aperto e uno strizzato per il sole.

Stava leggermente gobba con la schiena, ma era comunque bella.
Aveva il naso alla greca.

- Ciao - dissi, con un cenno breve, per poi tornare a fumare.
Proprio come se non me ne fregasse nulla.

Rimanemmo in silenzio.
Io ero a disagio, ma a lei non dava per nulla fastidio, anzi.
Un po' mi guardava, un po' guardava i suoi piedi.

- Ci sai andare sul pedalò?

- Che?

- Sul pedalò - ripetè, quasi in modo stupido.

- Abbastanza.

Silenzio, di nuovo.
Mi stavo quasi innervosendo, e lei se ne era accorta, e sorrideva ancora.
Proprio come ieri.

- Domani ci andiamo insieme - disse a un certo punto, così, dal nulla.

- Domani?

- Sì, perchè è tardi adesso.

- Domani quando?

- All'alba.

- All'alba?

Alla mia domanda, scrollò le spalle.

- Se ti va.

Presi una boccata di fumo.

- Mi va.


















Ma da dove salta fuori sta roba?

L'ho scritta in mezz'ora dopo pranzo.

Vabbeh.

Vado a fare matematica.

𝓶𝓪𝓻𝓲𝓷𝓪Where stories live. Discover now