Capitolo 8

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Canzoni per il capitolo:
- All that she wants: Ace of Base
- Smells like teen spirit: Nirvana
- Stand up: J. Min (To the beautiful you OST)
- 다시 너를: Mad Clow ft. Kim Na Young (Descendants of the sun OST)

Ricordavo che mamma e papà urlavano sempre. Non potevano rimanere nella stessa stanza senza impedire a qualche bicchiere o piatto in ceramica di frantumarsi a terra. Lo ricordavo perché io ero così spaventata da non riuscire ad abbandonare il mio nascondiglio - consistente in un cumulo di coperte e cuscini ammucchiati in camera mia - per affrontare la situazione.
Mi capitava di perdere i sensi per il forte stress, come un'auto-difesa e quando entrambi giungevano ad una tregua per vedere come mi sentissi, successivamente, non appena riprendevo il senso della realtà, iniziavano nuovamente a litigare incolpandosi vicendevolmente.
Avevo appena cinque anni, ma il ricordo era così vivido che mi sembrava di riviverlo giorno per giorno.
Ultimamente, forse dovuto al cambiamento d'aria e di continente, riuscivo a non pensarci affatto, oppure a rimuginarci quel poco per non permettermi di dimenticare le varie ragioni per cui i miei non stavano più insieme.
Casa mia, nei miei primi anni di infanzia, era diventata un luogo instabile dove le urla erano normale giurisdizione e i piatti non erano così necessari per mangiare.
Quando mio padre decise di mettere fine a quei continui tumulti, avevo cinque anni e mezza e mai una volta, prima di allora, avevo visto i miei genitori distruggersi a vicenda.
Si rinfacciavano i torti commessi, si accusavano per la qualsiasi, anche su quanta acqua calda sfruttassero per riempire la vasca da bagno.
Non è difficile capire il perché a me le storie d'amore non piacessero e perché il matrimonio non lo considerassi nemmeno uno dei momenti più belli e felici della vita.
Davo la colpa a loro per avermi fatta crescere con quello sgradevole difetto.
Una volta, entrambi immersi in uno dei loro litigi efferati, mia madre uscì dalla loro camera da letto e incrociò il mio sguardo.
Trascinava dietro di sé una valigia nera.
«Spero starai bene con tuo padre», annunciò glaciale iniziando ad incamminarsi verso la porta di ingresso per poi sbattersela dietro, alle spalle.
Io rimasi ferma in silenzio iniziando a singhiozzare. Non capivo perché mamma avesse deciso di abbandonarmi in quel modo, ma avevo ancora papà, quanto meno. Almeno così pensavo.
Qualche minuto dopo l'uscita teatrale di Lena, anche mio padre uscì da quella stanza portando sulle spalle uno zaino da trekking marrone e in pelle, dal quale riuscii a vedere qualche indumento gettato dentro alla bene e meglio.
Sospirò pesantemente non avendo la decenza di guardarmi in faccia. Sì passò le mani sulla fronte e poi si stropicciò gli occhi.
«Vai a vivere con tua madre, Ella! Io me ne vado.»
Non ebbi nemmeno il tempo di spiegargli che già mamma mi avesse lasciata lì con lui, che anche mio padre mi abbandonò. Fu un attimo.
L'amore per un figlio era davvero così breve e irrilevante?
Quanto irresponsabili dovevano essere per lasciare la figlia di cinque anni e mezzo, da sola?
Quella sera stessa successe l'inevitabile. Avevo passato sola gran parte del pomeriggio rinchiusa nella mia cameretta a giocare con il mio pupazzo di pezza preferito e a piangere quando tornavo a rimuginare sull'accaduto. Non avevo mangiato nulla né avevo bevuto acqua. Ero affamata e assetata, ma sapevo che non era di mia competenza girare la manovella della bombola del gas e azionare i fornelli, così trascinai una sedia sotto lo stipetto alto sopra la cucina, dove mamma nascondeva i biscotti al cioccolato, e li presi barcollando sulle mie stesse gambe.
Riuscii a scongiurare una frattura a qualche osso così, orgogliosa delle mie capacità da equilibrista, presi un bicchiere di vetro dove poter versare dell'acqua.
Purtroppo il bicchiere finì col scivolarmi di mano nel momento in cui anche la bottiglia d'acqua cedette. Cadde sul pavimento e ne riversò il contenuto a terra, sui pantaloni del pigiama e sui miei piedi.
All'epoca in casa rimanevo senza scarpe, solo con un paio di calzini antiscivolo con la testa di Topolino in rilievo.
Purtroppo per me, esse non evitarono che le schegge di vetro mi si conficcassero sotto la pianta, costringendomi a rimanere bloccata lì, in lacrime, urlando i nomi di mamma e papà perché accorressero in mio aiuto. Ero convinta che potessero sentire, in cuor loro, come una sgradevole sensazione, che mi ero fatta male e da illusa provai a tenere gli occhi aperti il più possibile per vederli entrare in casa. Nulla di tutto ciò accadde.
Passarono due giorni prima che mi trovassero lì stesa a terra ricoperta di sangue, e non furono nemmeno quei due a farlo, ma i vicini che avevano trovato la porta di casa socchiusa ed erano entrati a controllare che non fosse successo niente di grave. Questo, prima di scorgere il mio corpo sul parquet circondata da tanti cocci di vetro.
Mi portarono in ospedale trafelati, e la nostra vicina di casa provò a chiamare entrambi i miei genitori, allarmata, ma dubitavo che rispondessero nell'immediato.
Mi svegliai diverse ore dopo, distesa su un lettino cigolante e scomodo, infagottata tra un lenzuolo leggero e una copertina azzurra, altrettanto leggera. Avevo entrambi i piedi fasciati e mi pizzicava il fianco destro, dove scoprii esserci un'altra fasciatura sulla quale si intravedeva del sangue rarefatto e secco salito in superficie. Non urlai, non ero spaventata, solo non riuscivo a capire perché mi trovassi lì, quando il mio ricordo si riduceva ai miei piedi doloranti e le gambe fredde per gli schizzi d'acqua.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jan 07, 2017 ⏰

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