La stazione

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Avere diciassette anni e sentirsi Dio è come essere perennemente strafatti.

Cuori infranti sniffati come cocaina e dosi di apprezzamenti per tirare avanti.

Essere me è soddisfacente.

Estremamente soddisfacente.

Perché, inutile negarlo, essermi indifferente è praticamente impossibile: puoi amarmi o odiarmi, venerarmi o considerarmi una creatura indegna d'esistere, ma non puoi ignorarmi.

O almeno così credevo.

La prima volta che lo vidi fu un mese fa.

Ricordo che pensai che doveva essere nuovo perché, in quattro anni, non l'avevo mai visto sul treno delle 6.04.

Aveva sui vent'anni e un aspetto assolutamente ordinario: corporatura nella media, capelli scuri, carnagione olivastra.

Guardava fuori dal finestrino, nonostante fossimo fermi alla stazione.

Decisi di sedermi davanti a lui più per caso che per intenzione: quelli come lui non mi interessavano, preferivo quelli che spiccavano, che avevano qualcosa in più.

Così mi avvicinai alla poltrona e mi ci appollaiai con eleganza.

Fu lì che accadde: girò lo sguardo con aria disinteressata e mi lanciò un’occhiata frettolosa.

Non mi era mai successo in vita mia.

Certo, non tutti si innamoravano perdutamente di me, ma chiunque rimaneva quantomeno colpito dalla mia bellezza o dalla cura del mio aspetto.

Eppure lui guardava fuori dal finestrino.

Lo vedo tutti i giorni, da allora, sul treno delle 6.04.

E ogni mattina, lui guarda fuori dal finestrino.

È il mio pensiero fisso, la mia piccola ossessione: non ha niente di speciale eppure è così onnipresente in me che a volte faccio fatica a distinguere dove finisco io e inizia lui.

È una mia appendice ormai. O forse io sono la sua. Non lo so, le mie sicurezze vacillano spesso, ultimamente.

A volte vorrei baciarlo, altre farlo fuori.

Perché è un mese che ce l'ho davanti e lui ancora non m'ha guardata: sembra quasi non vedermi.

Mi irrita.

Ogni giorno che passa, però, ho sempre più voglia di baciarlo, prenderlo e farlo mio.

Perché siamo una cosa sola, noi due: l'ho pensato troppo perché sia diversamente.

Ho deciso che oggi gli parlerò: voglio sapere che cazzo ha da guardare fuori da quel dannato finestrino, perché fissa perfino la stazione.

È novembre e fa un freddo cane: questa notte ha piovuto e il pavimento della stazione è sporco di fango.

Salgo sul treno e vengo avvolta da un familiare tepore: attraverso il corridoio della carrozza sette finché non lo vedo.

Il mio cuore perde un battito, ho addirittura un leggero tremore: ora che lo guardo sul serio è decisamente meno ordinario di quanto non mi fosse sembrato.

Mi siedo e lui non mi guarda nemmeno: ha gli occhi fissi sulla stazione.

Fiduciosa, mi levo la giacca. Il treno parte.

Dopo qualche minuto di viaggio, prendo coraggio.

“Ti vedo tutti i giorni" -inizio-  "posso sapere perché guardi sempre fuori dal finestrino? Anche quando siamo fermi alla stazione.”

Allora lui, per la prima volta, mi guarda.

Alza le sopracciglia, poi abbozza un sorriso e risponde.

“Perché la stazione, qui, è l’unica cosa che vale la pena guardare.”

Mai fu detta bestemmia peggiore.

Notti di NovembreWhere stories live. Discover now