5 Pustole

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È passato altro tempo. (Forse sono passati giorni, forse mesi o forse anche anni.)
Emilia è sempre seduta sulla sua panca, contro la parete rossiccia, piena, fino agli occhi e alla radice dei capelli, della sua pazzia.
Qualcosa è intanto mutato, nella casa colonica, rossa, guerresca e tranquilla come una piazza d'armi abbandonata, intorno a lei: ossia, la gente della casa non solo si è abituata alla sua strana presenza, ma ha maturato piano piano l'idea deferente e devota che si è ormai fatta della sua congiunta.
Infatti - poiché chi è superstizioso è sempre, nella sua super- stizione, realistico - vicino ad Emilia seduta, su uno dei mattoni san- guigni della piccola maceria, brilla un cero - come sotto un'immagine sacra. Un umile, provvisorio cero, se volete, senza alcuna solennità. Messo lì tanto per dare un nome e un senso all'avvenimento. Le vecchie della casa, poi, hanno preso confidenza con quella nuova Emilia; non se ne stanno più a origliare, sospette, dietro le tendine bianche, ma sono nel cortile: e qualcuna sorveglia l'Emilia, qualcun'altra lavora - tutte in una speciale confidenza col fenomeno che accade nella loro casa, con quell'Emilia muta, assorta e come bruciata dalla febbre.
Sembra una cosa già abitudinaria anche il fatto che, dal portone aperto in fondo alla casa colonica, dalla carreggiata bianca sul verdolino dei prati dei pioppi, venga avanti un gruppo di vecchie e di vecchi, quasi si trattasse di un gruppo di pellegrini. Sono evidentemente vicini di casa, o gente di qualche paese lì accanto, il cui campanile traspare, con la sua lunga cupola marrone venata di rosso (e gli ornamenti sontuosi e micragnosi dei secoli della Controriforma), in fondo alle file dei pioppi.
I nuovi arrivati vengono avanti in una specie di processione, fino a fermarsi in cerchio intorno all'Emilia. In mezzo a loro - la si nota ora, perché gli altri le fanno largo intorno - c'è una donna di mezza età, che sembra vecchia (coi vestiti neri della festa, le calze di seta, la veletta traforata), che tiene in braccio un bambino malato, con la faccia patita e umiliata tutta piena di piccole piaghe rosse, o di pustole secche.
Emilia sembra non vedere niente. E se i suoi occhi si posano finalmente sul malato, lo fanno come se egli non esistesse realmente, ma non fosse che un'apparizione. Essa, tuttavia, lo guarda a lungo, con diligenza - come se compisse un dovere, in qualche modo, più burocratico che sacro. La sua partecipazione alla cerimonia in cui essa stessa è la santa, avviene attraverso i medesimi modi con cui gli altri l'accettano: quasi come qualcosa di codificato, di appartenente agli atti di una immobile e cieca santità. Infine - assente e quasi cattiva -Emilia fa, verso il bambino piagato, un lento segno di croce.
Tutti gli occhi dei contadini sono puntati sul bambino, in avida attesa di quello che, infatti, succede: il bambino comincia ad agitare braccia e gambe, guardando piangendo sua madre, e cerca dibattendosi di divincolarsi dal suo abbraccio, e scivolare lungo il suo fianco, fino a mettere piede a terra. La madre, trepidante, e col viso pieno di una già consacrata gioia divina, lo lascia fare e si china a guardarlo. Il bambino mette i piedi a terra, reggendosi dritto, appena traballante: il suo viso è tenero, dolce, come appena lavato: delle pustole che lo sfiguravano non rimane la più piccola traccia. Tutt'intorno allora, i presenti, cadono in ginocchio, alzando alte grida di ringraziamento e di gioia.

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