9.1 Lirya

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Nell'immagine: Ryan

Erano circa tre ore da quando ero andata a prendere una cioccolata calda con quelle che potevo definire leie amiche. Mi ero buttata sul letto con sospiro liberatorio. Nonostante non fosse stata una giornata impegnativa, avevo comunque accumalato molta ansia prima di arrivare in classe. Scesi dal letto e mi avviai verso la cucina, era l'una di mattina, era leggermente presto per pranzare, ma mi diressi comunque verso la sala da pranzo per vedere se era pronto qualcosa. Avevo fame. La cioccolata calda mi era bastata per appena tre ore. Davanti alla porta della sala da pranzo bussai e la voce grave di Robert mi disse che potevo entrare. La aprii con delicatezza e mi diressi verso quella che era il mio posto a tavola.

-Giorno padroncina

Mi aveva salutata e io lo ricambiati con enfasi, ma non troppa. Mi sedetti al mio posto e incominciai a mangiare. Di Valter neanche l'ombra. Si era chiuso nel suo ufficio da stanotte. Non aveva intenzione di uscire e questo mi lasciava perplessa. Come mai, lui così appiccicoso, lui così invasivo, lui sempre presente a consolarmi e sempre lì a controllare ogni mia azione perché io non mi rompa e mi infranga in mille pezzi. Solo allora me ne resi conto. Ho sempre avuto paura della solitudine e di chi mi circondava, i loro giudizi, i loro modi di fare e pensare... Di tutto, ma più di tutto e tutti, di come si sarebbero comportati nei miei confronti. Ciò che davvero mi ha sempre spaventata, non era il passato, o il presente, ma il futuro. Il non sapere cosa sarebbe successo dopo. Per me era come fare un salto nel vuoto. Un vuoto di cui non avrei visto nulla fino a che non fossi stata a un palmo di naso da esso. Il fatto di doverlo fare da sola era un per me un altro dilemma che si aggiungeva ai precedenti. Purtroppo ero troppo timida per fare quel primo passo che serviva a schiarire quel buoio. Fortunatamente qualcuno l'aveva fatto e quel qualcuno era stato Valter. Seppur in modo prepotente e, se vogliamo, sbagliato aveva fatto quel primo passo che io non riuscivo a fare. Ora che però entrato in quella parte del mio cuore che io avevo sempre tenuto inaccessibile a tutti, mi amncava, mi mancava da morire. Avevo un disperato bisogno di lui e del suo modo essere. Non ce la facevo più. Finito di cenare mi diressi verso il suo ufficio e bussai alla porta. Nessuna risposta. Bussai un altra volta, ma una voce irritata mi disse di andarmene. Me lo ricordo molto bene, fece male, malissimo. Rimasi scioccata per interi minuti, nel mentre continuavo a fissare la porta incredula. Ribussai un altra volta. Questa volta, però la risposta non fu una solo una voce irritata, ma un vero e proprio grido di collera. Sentivo crescere in me collera, furore e un dolore allucinante. Calde lacrime spingevano per uscire. A quel punto non ci vidi più dallo sdegno. Spalancai la porta con un tonfo sordo. Le lacrime che ormai ricavano il mio volto e la mia collera insormontabile, a grandi passi mi avvicinai a lui, era dietro la sua scrivania, la tuba e il mantello appesi all'appendino vicino alla porta. In volto un espressione di puro stupore. Gli tirai uno schiaffo con tutta la forza che avevo e non era poca. Lo constai quando anche qualche giorno dopo gli era rimasta l'impronta della mia mano sulla sua guancia. La faccia girata verso destra e in bella mostra la guancia sulla quale l'avevo colpito. Ritrassi di scatto la mano e come un fulmine mi girai e corsi a perdi fiato verso camera mia. Dei grandi lacrimoni solcavano il mio volto, mentre un canto straziato formato da urla usciva dalle mie labbra senza che io potessi farci nulla. Lo sentivo. Mi stava rincorrendo. Io, però, non accennavo a rallentare. Non volevo incontrarlo. Non volevo. Per la prima volta mi stavo ricredendo, avevo cominciato ad ipotizzare che forse stare nella più completa solitudine non era la soluzione migliore per me. Ora sono convinta del fatto che non fosse la miglior soluzione, ma in quel preciso istante pensai che fosse stata l'idea più assurda che potesse essermi potuta venire in mente. Davanti alla porta della camera, afferrai la maniglia con tanta forza da spaccarla. Mi rimase in mano. D'altro canto però la porta era aperta. Entrai con furia in essa e richiusi la porta con un tonfo secco. Afferrai la chiave appoggiata sulla cassettiera e chiusi a chiave. Appena girato l'ultimo scatto che Valter cominciò a tirare dei forti pugni alla porta e che continuava a urlarmi di aprire.

- Vattene via!

Gli urlai nelle lacrime. Per un momento cessò qualsiasi rumore fuori da camera mia. Poi un tonfo secco e dei passi che si avvicinavano al mio letto. Non vidi assolutamente nulla, siccome ero rannicchiata a palla sul mio letto, con la testa appoggiata sulle mie ginocchia. I singhiozzi che facevano tremare il mio corpo. All'improvviso una mano si posò sulla mia schiena. Quella stessa mano mi attirò a se e mi abbracciò dal dietro. Meccanicamente strinsi a me quel corpo magro, ma forte. Ripresi a piangere più forte di prima. Non disse nulla. Era ormai salito il sole da un'ora buona, era ora di andare a letto, ma dovettero passare ancora due ore prima che io mi addormentassi. Mi ricordo che prima di dormire un tepore dolce mi accompagnò nelle braccia di Morfeo. Le avevo sempre reputate fredde ma con qualcuno al mio fianco che come si lasciava andare a quel dolce sonno mi aveva confortato. I miei sonni, furono tranquilli e  intervallati da dolci sogni dai quali non avrei mai voluto svegliarmi.

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