Sol lucet omnibus- Parte I

6 0 0
                                    

Febo Apollo si materializzò davanti ad uno dei suoi templi preferiti, precisamente, il tempio per cui era noto anche con l'epiteto "Timbreo".
Non poteva rimandare l'aurora ancora per molto, forse aveva solo pochi minuti prima che l'alba imminente lo richiamasse al dovere. Aveva chiesto a sua sorella Artemide di dilungarsi quanto le fosse possibile nel cielo notturno e lei, stranamente, lo aveva assecondato, rimproverandolo solo con un sospiro sconsolato. Perciò la Luna stava tramontando solo in quel momento, e gli impalpabili raggi che, obliqui, riuscivano a insinuarsi nel santuario rimbalzavano sul marmo bianco come sulla superficie di uno specchio d'acqua.   
I sacri serpenti del dio scivolavano frusciando, sinuosi e silenziosi, ai piedi dell'altare.
Squame verdi, denti scintillanti , guizzi rossi, sibili, sussurri primitivi che parevano la voce del rimorso.
E due figure umane dormivano beate, cullate dalla danza flessuosa dei rettili che, accarezzandoli, li purificavano.
Cosa mai poteva esserci da purificare in due bambini addormentati?
Due gemelli, due figli di re, come lo erano stati Febo e Artemide.
Il dio raggiunse l'ara con movenze così armoniose e cadenzate che pareva stesse danzando, vi si appoggiò sopra e richiamò a sé i propri serpenti per non spaventare i bambini.
Chi mai poteva essere così sventato da lasciare due principi incustoditi, sia pur in un tempio, sia pur in un suo tempio?
Avvolto in un corto chitone di stoffa incorporea ed impalpabile, immerso nella sommessa ed evanescente luminescenza lunare, poteva sembrare solo un'apparizione.
Un'apparizione, ecco quello che fu per Cassandra.
Apollo apparso nello sfolgorio dei raggi, così come si sarebbe abituata a vederlo da quel momento in avanti. 
Fu la prima a svegliarsi, la prima a scorgere la figura celestiale dell'Arciere che si stagliava ai piedi del suo maestoso e imponente simulacro.
Fra i due, solo la statua aveva un volto umano.
Apollo non si mosse. Guardava la stupenda bambina dai ricci bruni ancora semi sdraiata sul marmo gelido come gli uomini assistono alla schiusa di un uovo da cui non sanno che creatura nascerà.
Cassandra si sarebbe messa a tremare, se solo avesse conosciuto abbastanza il mondo da interpretare il significato dello sguardo del dio. 
Ma fino ad allora era stata cresciuta da figlia di re, con l'orgoglio di una principessa, la fierezza nel portamento e l'alterigia nello sguardo. Al tempo era ancora la figlia favorita di re Priamo, non si era piegata davanti a nessuno, se non in adorazione al cospetto di suo padre. Aveva sempre riverberato la fiamma della dinastia Dardanide, amata dal suo popolo perché venerata dai fratelli.
Non sapeva ancora, come non sapeva Apollo, che quello stesso popolo e quegli stessi fratelli l'avrebbero rinnegata.
[Abbassa lo sguardo davanti al tuo dio, Cassandra. Abbassalo.]
Ma gli occhi castani della giovane troiana rimanevano incatenati, fermi e palpitanti, soavi e duri insieme, in quelli del color del sole di Apollo che, ironicamente, trovava quella meravigliosa contraddizione più provocatoria del suo sguardo ostinato.
Cassandra sentì il gemello muoversi contro la sua schiena e una mano della stessa dimensione della propria le tirò la stoffa candida e stropicciata del chitone.
« Eleno, » sussurrò la bambina scuotendo trafelata il fratellino assonnato « Eleno, Eleno, guarda».
[Guardalo. Non privarti della visione di un dio.]
« Brilla come le lucciole del nostro boschetto.» rispose lui, aprendo appena gli occhi acquosi, traboccanti di una spensieratezza che forse gli dei avevano destinato ad entrambi i gemelli, ma che a Cassandra era stata precocemente preclusa.
La giovane figlia di Priamo sarebbe volentieri rimasta a contemplare il dio fino a quando il dovere non lo avesse richiamato a splendere nel cielo, ma quando il suo sguardo si rivolse nuovamente verso l'altare, dell'empirea apparizione di Febo non erano rimasti che i due serpente guizzanti.
Lo strillo di Ecuba squarciò la tersa immobilità del tempio.
Cassandra capì che Apollo aveva percepito, con il suo udito vigile e raffinato, il sobbalzare del carro reale sulla strada dissestata e che aveva deciso di celarsi alla madre. Frastornata dalle urla della regina, quasi delusa per il brusco ritorno alla dimensione terrena, la bambina non comprese il motivo di tanta agitazione finché non si accorse che i sacri serpenti, prima inibiti dalla presenza del dio, si erano lentamente avvicinati a colei che aveva suscitato tale interesse nel loro padrone.
Sentì il flebile pianto di Eleno, spaventato alla vista dei rettili, e il nitrito infastidito dei cavalli quando Ecuba, scendendo affannata dal carro, corse per i gradini del tempio e scacciò i serpenti.
[Come se Apollo avesse davvero potuto lasciare che venisse fatto del male a due bambini in un suo tempio.]
Il dio non poté non avvertire una punta di irritazione pizzicare il proprio sensibile orgoglio per questa mancanza di fiducia e anche, constatò contrariato, perché la regina non aveva rivolto una sola occhiata al santuario per accertarsi delle sue condizioni dopo i festeggiamenti per il genetliaco di Priamo. Si acquattò meglio dietro una delle imponenti colonne del tempio, accorgimento completamente superfluo dato che si era reso invisibile ai mortali, e continuò ad osservare la scena.
Ecuba sospinse  i figli verso il carro e impartì qualche distratta istruzione all'auriga. Cassandra non aveva battuto ciglio per tutto il tempo, al contrario di Eleno che, attaccato al peplo della madre, stava ancora piagnucolando.
Il dio sospirò e si diresse a grandi passi verso il boschetto che circondava il tempio di Apollo Timbreo per andare a recuperare i suoi serpenti, rifugiatisi in un cespuglio. Quando si voltò indietro prima di scomparire all'ombra delle scure fronde, Cassandra stava ancora guardando nel punto in cui l'aveva scorto l'ultima volta.

Racconti di mitologiaWhere stories live. Discover now