CAPITOLO 4

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Erano passati tre lunghi giorni. Il caldo si era fatto sentire sempre di più. Ermal aveva passato quasi tutto il tempo con la sua chitarra a buttare giù qualche verso o a chiacchierare con Niccolò che si stava rivelando un ragazzo con una sensibilità fuori dal comune. Oppure passeggiava da solo lungo il corridoio avanti e indietro. Anche se non sopportava più il bordo dei pantaloncini corti che gli premeva sulle ossa delle anche. Aveva cercato di piegare l'orlo in modo da non perderli ad ogni passo.

Fabrizio non usciva da quella dannata camera da tre giorni.

Oggi sarebbe stato il gran giorno. Gli avrebbero tolto finalmente quell'aggeggio dallo stomaco, ma in compenso doveva decidere se rimanere lì e farsi aiutare oppure tornarsene a casa. Ancora non aveva deciso niente. Sapeva solo che quando sentiva sua madre al telefono tratteneva a stento le lacrime e con voce tremante le diceva che presto sarebbero andati insieme al mare. In realtà, durante alcune chiamate, aveva sentito più volte la tentazione di raccontarle tutto. Aveva bisogno di una spalla forte su cui appoggiarsi, su cui piangere, su cui sentirsi al sicuro. Tante volte, quando era ancora bambino con quei capelli ricci che lo distinguevano e le ginocchia piene di botte, si era lasciato confortare da quella voce. Si lasciava cullare ad occhi chiusi, mentre sentiva il dolore sulla pelle e nelle ossa per le botte presa da suo padre, ma il cuore si scaldava sotto quelle carezze. "Andrà tutto bene" glielo ripeteva come una cantilena mentre lo stringeva in un abbraccio. E a quei andrà tutto bene lui ci aveva creduto. Ci aveva creduto con tutto il cuore.
Alla fine erano riusciti a scappare da loro padre, dalle litigate giornaliere, dal dolore ingiustificato, dalla violenza e dalla povertà. Così si ricordava della donna con cui parlava al telefono, di quanto aveva sofferto e lottato per dargli la felicità. Allora decideva che non le avrebbe detto niente, che non le avrebbe rovinato la serenità che con tanta difficoltà si era conquistata.

Forse poteva tornare a casa quella sera e farcela da solo, senza nascondersi in un ospedale ed essere visitato da psicologi, nutrizionisti e dietologi.

Decise di farsi una doccia prima che arrivasse il medico per visitarlo, anche se non era proprio il massimo lavarsi in quel bagno piccolo senza finestre.
Per la prima volta dopo cinque giorni si guardò allo specchio. Lo evitava sempre, come evitava la bilancia e tutto ciò che gli poteva dare un idea di quella che era la sua immagine esteriore. Ma voleva smettere di mentire a se stesso. Poteva decidere di non farsi aiutare, di non rimanere lì, ma doveva accettare ciò che era, quello che gli stava succedendo. Rimase soltanto con un paio di pantaloncino della tuta addosso. Si guardò. Tremò un pò e ricacciò indietro le lacrime. Andò a toccarsi i fianchi, poi la pancia e il volto. Erano bastati quattro giorni e lo avevano gonfiato come si fa con le ruote della bici. Era orribile. Perché nessuno glielo aveva detto che era così orribile? Farsi aiutare da gente che lo riducevano così a sua insaputa? Ma neanche per sogno. Gli veniva da piangere mentre avvertiva sotto le dita la carne che aveva ripreso consistenza sulle ossa.

La porta venne spalancata all'improvviso e si sentì terribilmente in imbarazzo, li così in mezzo al bagno nei suoi pantaloncini che dal salto che aveva fatto stavano rimanendo su per miracolo.

«Oddio, mi dispiace. Non pensavo fossi qui!» Fabrizio arrossì spostando lo sguardo velocemente da un punto all'altro della stanza.

Ermal cercò subito una maglietta per coprirsi.

«Tranquillo, il bagno è di tutti, no?» non sapeva che dire. Non si aspettava di vederlo.

Sembrava stanco morto. Respirava un pò a fatica mentre la fronte era imperlata di sudore. Nonostante questo gli sorrideva. Un sorriso dolce che lo faceva sentire la persona più bella di questo mondo. Arrossì a quel pensiero e così disse la prima cosa che gli passò per la testa.

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