Capitolo 2

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Clarissa

Il primo giorno di scuola è arrivato fin troppo in fretta. Mio padre aveva ragione, la Roosvelt High School è abbastanza vicina per essere raggiunta agilmente a piedi. Arrivata, mi paralizzo sul marciapiede vicino al parcheggio, cercando il coraggio di entrare. Osservo l'edificio con un nodo alla gola: è su due piani con una struttura lineare, senza troppi fronzoli. Il piano terra è rivestito di mattoncini rossi che contrastano con l'intonaco bianco. Sul davanti c'è una serie di ampie finestre e in alto spicca l'insegna della scuola. Non so perché sono così nervosa, non è certo il mio primo primo giorno in una nuova scuola. Forse ci ho solo perso l'abitudine dopo essere rimasta nello stesso posto per ben due anni. Prendo un profondo respiro, mi sistemo nervosa la t-shirt nera e decido di darmi una mossa. I capelli mi si appiccicano alla fronte, così li raccolgo al volo in una coda alta. È mattina ma c'è già un caldo torrido. Ho fatto bene a indossare degli shorts di jeans.

Osservo dei ragazzi salutarsi come non si vedessero da una vita e altri riposarsi sotto l'ombra di alberi rigogliosi che si stagliano nel cortile. Salvo intorno alla scuola, finora non ho trovato El Paso molto verdeggiante. Mi rilasso quando noto che ci sono anche alcune facce spaesate. Immagino si tratti di matricole del primo anno mentre io sono al secondo, ma non importa: è rassicurante vedere che non sono l'unica in difficoltà. A essere onesti, cominciare le lezioni insieme a tutti gli altri è molto meglio di quando devo farlo a metà anno: lì si che ero al centro dell'attenzione. Oggi, almeno, è il primo giorno per tutti e dovrei riuscire a passare relativamente inosservata.

Mi faccio coraggio e attraverso il cortile, seguendo la folla di studenti che si appresta a entrare nell'edificio.

Cammino a testa bassa ma la mia attenzione è comunque attratta dal gruppetto di ragazzi accanto a cui passo. Hanno scritto a chiare lettere in faccia "Se cerchi guai... li hai trovati". Mentre gli altri si affrettano a entrare, loro se ne rimangono tranquilli, appoggiati alle loro macchine con il tipico atteggiamento di superiorità e disinteresse per ciò che li circonda. Sono vestiti tutti più o meno allo stesso modo: jeans strappati, t-shirt semplici, il nero è il colore prevalente. Hanno tatuaggi sulle braccia e un gran numero di piercing in faccia. Ci sono anche un paio di ragazze, una ha dei capelli rosso fuoco, un piercing al labbro e uno al naso. L'altra ha le punte dei capelli verdi. Ma il ragazzo da cui non riesco a staccare gli occhi è quello che sta fumando, seduto su un cofano con l'aria annoiata. Con lo sguardo risalgo le braccia definite ricoperte da diversi tatuaggi, fino a un viso assurdamente bello ma con un'espressione tanto fredda da farmi correre un brivido lungo la schiena. I capelli neri sono scompigliati e alcune ciocche gli ricadono sulla fronte. I suoi occhi sono così scuri da sembrare quasi neri. E mi stanno fissando. Mi volto all'istante, rendendomi conto di essermi fermata a osservarli imbambolata, e mi affretto a entrare con la strana sensazione di avere ancora i suoi occhi su di me. Sì, ho decisamente già individuato il "cattivo ragazzo" della scuola.

Trovo subito il mio armadietto, tra le lunghe fila blu e azzurre che richiamano i colori della scuola, e ci metto dentro quello che non mi serve per le prime ore. Il corridoio è molto luminoso grazie alle vetrate che fanno entrare la luce del sole. Col senno di poi devo ringraziare mio padre per aver insistito perché venissimo entrambi a parlare con il preside per informarlo sulla mia situazione scolastica, un paio di giorni fa. Era necessario compilare la mia scheda personale con i voti, i crediti formativi e tutto il resto. Dopo aver dovuto ripetere un anno di scuola, a causa di un anno particolarmente pieno di traslochi, mio padre adesso ci tiene in modo quasi ossessivo ad assicurarsi che sia tutto a posto. Così il preside ci ha fatto fare un giro della scuola, mostrandomi le aule dei miei corsi e il mio armadietto. Almeno non mi sento così persa. Raggiungo senza difficoltà l'aula di letteratura, una delle mie materie preferite, e prendo posto a un banco libero in terza fila. Sono banchi da due ma al momento il posto accanto a me è vuoto. Spero resti così, perché non sono proprio dell'umore adatto per chiacchierare. Non ho ancora digerito questo trasferimento e comunque non vale la pena provare a stringere amicizia con qualcuno non sapendo nemmeno quanto resteremo in questa città. Papà dice che non ce ne andremo, ma ormai non mi fido più. Il mio pensiero vola inevitabilmente a Kate. Ci siamo sentite tutti i giorni da quando sono partita. Mark e Annabelle erano furiosi perché non gli ho detto nulla. Proprio ieri ci siamo videochiamati e mi sono presa una bella lavata di capo. Solo Liam non ha partecipato. Kate ha detto che aveva un impegno di famiglia ma, dagli sguardi che si sono scambiati tra loro quando ho chiesto di lui, era ovvio che si trattasse di una bugia. Non che sia stata una sorpresa: non ha ancora risposto alle mie telefonate e ai miei messaggi... più chiaro di così. Mi sento davvero molto in colpa. Ho capito di aver sbagliato e che avrei dovuto salutare almeno lui. Mi manca sentire la sua voce, che stava passando gradualmente da quella di ragazzino a quella di un uomo. E lo scintillio del suo apparecchio quando mi sorrideva radioso. Cercare di chiacchierare con i miei amici, sapendo che potrei non rivederli più, è stato davvero difficile oltre che tristissimo. D'altro canto mi ha fatto piacere vederli, mi hanno tirato su il morale come hanno potuto.

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