Capitolo 1.

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Un gioco. Era tutto un fottuto e malato gioco. 

Non ne volevo sapere più così mi ribellai al mio capo e scappai. Scappai via, di corsa, il più velocemente possibile, tanto quanto le mie gambe mi permettevano di fare. Ero esausta. Non ce la facevo più. Sentivo piano piano l’adrenalina abbandonarmi, le gambe cedermi e i polmoni scoppiare. Non riuscivo più ad inspirare aria sufficiente, tanta era la stanchezza, l’affanno, la paura. 

“Pensavi davvero che ti avrei lasciata scappare così?” Mi aveta trovata e non c’era più via di scampo per me.

***

“Faith” la voce di mio padre mi svegliò dal mio incubo. Ero sudata, molto sudata, i miei lunghi capelli tutti scompigliati, mi ero fatta dei lividi sul labbro inferiore, tanta era la tensione che avevo in corpo. Era solo un incubo. Un incubo mischiato alla realtà.

“Faith è ora di muoversi, alzati da quel letto e preparati!” Odiavo il tono che usava con me, lo odiavo. Non era il modo di rivolgersi ad una figlia… o ad un dipendente. Cosa ci trovava di così accattivante nel trattarmi male? Cosa ci trovava di così accattivante in tutta la sua vita dico io. Ah già il potere. 

Se solo mia madre fosse qui per aiutarmi, se solo mia madre non mi avesse abbandonata al mio destino e mi avesse dato ascolto cinque anni fa. Io non sarei in questa merda di vita. 

Ho provato così tante volte a scappare o una via di fuga ma tutto è inutile quando sei controllata da due guardie che si danno il cambio ogni quattro ore. Tutto è inutile quando sei il perno centrale del malato gioco che ha innescato tuo padre, voglio dire, il tuo datore di lavoro. Tutto è inutile quando sei me. Costretta a rinunciare alla mia adolescenza, ad avere degli amici, ad avere un ragazzo da amare, tutto per uno sporco gioco. 

***

Mi diressi verso la mia caffetteria preferita, avevo bisogno di un caffè e anche bello forte per affrontare la mia mattinata, non avevo chissà quale impegno, solo supervisionare alcuni affari che secondo mio padre stavano cedendo, ma che secondo me erano perfetti così. Decisi che non me ne sarei preoccupata più di tanto potevo sempre dire che secondo i miei calcoli era tutto apposto, in fin dei conti quello non era il mio compito “nell’azienda”. 

Mi sedetti su uno sgabello, Margaret mi sorrise come tutte le mattine avvicinandosi a me dolcemente.

“Il solito Faith?” ormai io ero di casa in questa caffetteria, ci passavo la maggior parte del mio tempo, soprattutto quando dovevo lavorare in cartaceo. Non avevo un ufficio all’interno “dell’azienda” per il semplice fatto che mio padre non voleva che la gente si facesse strane idee, così mi rintanavo qui e tra un buon caffè e una chiacchiera con un’amica mi trovavo a mio agio. 

Margaret era una ragazza così dolce e gentile, lavorava lì più o meno da quando aveva quindici anni, penso che il bar fosse dei suoi genitori, o comunque di qualche suo parente. Aveva dei bellissimi capelli castani, lunghi e mossi e degli occhi cioccolato che risaltavano le sue ciglia. La adoravo ed era la mia unica amica ma purtroppo non potevo afferzionamici così tanto quanto avrei voluto.

“Allora Faith, cosa ti porta qui questa mattina? Sempre lo studio per gli esami di cui mi parlavi?”

Esami.

“Uhm, sì, purtroppo non ho idea di quando ci saranno e devo essere preparata al meglio.”

Accennai un piccolo sorriso cercando di essere il più convincente possibile, ma mi stava diventando sempre più difficile mentire a questa ragazza. Forse dovevo iniziare a cambiare caffetteria dove andare. Per mia fortuna Margaret non mi aveva mai fatto domande esplicite, le uniche cose che mi chiese furono il mio nome e i miei anni, ma tutto si fermò lì.

***

La giornata era quasi finita ed io l’avevo passata interamente in quel bar a “sistemare” quei conti che non andavano. Ero davvero stanca, la matematica non era una cosa per me, davvero. 

Decisi di chiamare mio padre per vedere se aveva in programma qualcosa o se potevo semplicemente andarmene a casa a riposare, cosa in cui speravo davvero molto.

Ovviamente i miei piani dovevano andare in fumo perché lui doveva spremermi come un limone.

“Non azzardarti a tornare a casa prima delle quattro di stanotte, devi portare a termine tutto!”

Era stato chiaro. Avrei dovuto passare la mia notte in un pub, una discoteca o quel che diavolo era, per i suoi affari. 

“E fatti bella mi raccomando!”

Mi faceva solo che ribrezzo.

Arrivai a casa e mi feci “bella” come diceva mio padre. Non ero un tipo da vestiti eleganti e ricamati, ma bensì preferivo dei pantaloni di pelle un top e un paio di stivali con il tacco. Ero una tipa che amava il nero quindi lo indossavo la maggior parte delle volte. Curioso.

Intrecciai i miei capelli rossi in una treccia laterale che riscendeva sulla spalla sinistra. Amavo i miei capelli perché erano facili da gestire e non dovevo ricorrere a trattamenti. 

Optai per un trucco nero un po’ pesante e provocatorio, era quello il mio mestiere in fondo, anche se non mi decidevo ad ammetterlo.

Che schifo.

Mi guardai allo specchio pronta per andare ovunque mio padre mi avesse portato, odiavo essere scarrozzata da lui ma in quel momento era meglio che andare a piedi. Anche perché non sapevo dove sarei dovuta andare onestamente. 

“Allora hai capito tutto?”

Annuii poco convinta ma tanto era sempre la stessa pappa, non serviva che me lo ripeteva.

“Faith devi rispondermi, non basta che annuisci, mi hai capito?”

“Ho capito! Tanto è sempre la stessa storia, papà!” sbottai all’improvviso e lasciai lui di stucco quanto me. La sua espressione sorpresa si rimpiazzò facilmente e prontamente con una di cattiveria e rabbia.

“Modera il linguaggio signorina e ricordati che lo faccio anche per te! Ah e un’altra cosa, non sono tuo padre ora.”

Sbuffai e scesi dalla macchina, arrivai all’entrata dove c’era una fila da far paura, ma fortunatamente avevo il pass che mio padre mi dava ogni singola volta che dovevo svolgere un lavoro, così entrai dopo dieci minuti sentendo la gente contro di me che mi mandava maledizioni a tutta andata. Io risposi semplicemente alzando il dito medio alla folla guadagnandomi una risata da uno dei buttafuori che erano presenti. Era la serata sbagliata quella. 

Arrivai al bancone e molta gente vi era seduta ad aspettare i propri drink, così mi aggiunsi. Avevo bisogno di qualcosa di molto forte per sciogliermi. Nonostante questo lavoro mi imponeva di essere sciolta e disinvolta e il mio aspetto me lo permetteva anche, devo essere sincera, ero sempre molto introversa e tesa con tutti.

“Che ti do tesoro?” Una voce viscida mi avvinghiò dai miei pensieri, tutto ciò che volevo fare era andarmene da lì il prima possibile. Oh ma sono solo le undici e mezza, ho ancora una notte intera da passare qui.

“Una vodka liscia, doppia” sorrisi con disinvoltura cercando di farlo staccare da me. Ma il suo sguardo si posò ancora una volta sul mio petto non eccessivamente scoperto e questo mi fece più che infuriare. Sapevo benissimo che il pub era gestito da alcuni consiglieri di mio padre ma non dovevo rivelare la mia copertura, a nessuno. 

“Senti non so cosa vuoi da me, ma io voglio la mia vodka subito che mi il mio ragazzo mi sta aspettando!”

Con quelle parole lo liquidai, per fortuna, era stato abbastanza facile.

***

Ero diretta nell’ufficio del proprietario del pub, l’uomo che mio padre doveva portare in affari con lui. Era un uomo sulla quarantina più o meno e mi sembrava di aver capito che aveva un figlio, anche lui doveva entrare nel giro di mio padre.

“Prego entra.”

GAME OVER || FF Louis Tomlinson ||Where stories live. Discover now