𝘮𝘰𝘯𝘰 𝘯𝘰 𝘢𝘸𝘢𝘳𝘦 ; XX

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Dopo un po' tornai a scuola, perché sapevo di non potermi permettere oltre quel numero di assenze

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Dopo un po' tornai a scuola, perché sapevo di non potermi permettere oltre quel numero di assenze.
Le mie giornate scolastiche erano monotone: le lezioni passavano lente, faticoso era prendere appunti e ascoltare i professori. A pranzo non uscivo neanche dall'aula. Rimanevo fermo al mio posto, nel vuoto e nel silenzio, ad aspettare che la campanella suonasse, ma Namjoon si preoccupava sempre di prendermi un panino e di venirmi a trovare e farmi compagnia. Gli ero grato dei suoi piccoli gesti, li trovavo i più significativi. Probabilmente senza quelli mi sarei perduto.
In classe ero taciturno e spento. Osservavo lo scorrere del tempo irremovibile, il lento incedere della giornata, i movimenti umani e tanto sbagliati che si consumavano davanti a me. Pur di non sentirmi un essere umano, non mi muovevo, così da non sentirmi come i miei compagni di classe.
Poi, un giorno, mi offrii al professore dell'ultima ora di rimanere per qualche minuto a pulire la classe. Mi aveva guardato molto sorpreso all'inizio, non sapeva bene che dire, nonostante fosse certo che avrebbe accettato. Infatti mi munii presto di scopa e paletta, e quando tutti gli altri furono usciti, cominciai a pulire. Fuori il tempo era uggioso, e io non volevo rinchiudermi nei pensieri dentro cui scivolavo inesorabilmente a casa. Probabilmente credevo che rimanere lì ancora per un po' sarebbe stato meglio.
Mentre pulivo la cattedra lucidandola fino a fare splendere la sua superficie lignea smaltata di verde, nacque in me l'improvvisa curiosità di sapere come si sentano i professori quando, da dietro la loro postazione, ci guardano negli occhi uno a uno. Cosa provano?, mi chiesi. Non avevo mai provato a mettermi nei panni di un professore. Ne esistono di molti tipi, e in linea generale si dividono tra quelli che preferiscono mettersi davanti alla cattedra e quelli che preferiscono mettersi dietro, seduti. I secondi sono i più fastidiosi. Dunque volevo provare a sedermi; misi da parte scopa e paletta, e mi sedetti alla cattedra poggiandovi le braccia sopra. Dava una strana sensazione immedesimarsi in un professore, vedere uno a uno i banchi scorrere davanti a sé con quella distanza che imponeva la cattedra. Li osservai uno a uno soffermandomi a quello che mi apparteneva, a quel punto mi immaginai la mia faccia e quella del resto dei compagni di classe. Sentii una strana sensazione di freddo in corpo. Immaginarmi nei panni di un professore era brutto.
Chissà come influisce su di loro questa distanza, pensai. Cosa pensano di noi a un certo punto da dietro quella cattedra. Io mi sento distante anni luce da questi banchi. Si sentiranno potenti?, continuai a chiedermi. Con un particolare potere? Un potere ce l'hanno, ma è così triste essere qui dietro, lontani da ciò a cui si è un tempo appartenuti; distanti come un re dalla patria, dai propri genitori. Chissà se si sono mai sentiti così.
Poi, stanco di quelle riflessioni, tornai a pulire. Ero imbronciato, assorto dal lavoro che compivo meccanicamente, e non mi resi conto che qualcuno era tornato in classe. Ma quando nel mio campo visivo spuntò una presenza, tirai su la testa e la guardai.
Era Cho Hyejin, la mia compagna di banco: capelli nocciolati raccolti in una coda alta, lunghi e mossi sulle spalle, un ciuffo di capelli ancora troppo corto ad ammorbidirle il capo dai capelli tirati all'indietro; il viso ovale, dal profile sottile, incorniciato da due orecchini di perle, e le ciglia voluminose per via del trucco. Sembrava un viso ingenuo e dolce, simile a quello di una ragazzina. Avevo trovato la bellezza nella sua delicatezza estetica, una bellezza sempre apparsami più grande per via della sua affabilità e del suo sorriso luminoso. Mi guardava, ora, con le mani strette alle bretelle dello zaino e con un sorriso timido e appena accennato.
Aspettai che parlasse lei per prima, così arrestai ogni mio movimento.

❝Il destino gioca d'azzardo❞Where stories live. Discover now