Capitolo 15

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"Io vi avverto: questo capitolo è un po' uno shock XS. Comunque vi lascio un po' di tempo per elaborare, e quando posso posto gli ultimi due ;) may the odds be ever in your favour , tributes"

~Rebs

Capitolo 15

La piazza era ricolma di Pacificatori, nella loro divisa aggiustata con cura per l'evento. Ogni passo che facevo per farmi largo tra la folla era come un passo verso l'oblio, ma la calca si richiudeva a muro dietro di me ed era impossibile tornare indietro. Dopo che mi avevano prelevato il campione di sangue per il riconoscimento avevo cercato a lungo i due ragazzi, senza trovarli. Presi posto nella mia fila, come stavano facendo tutti gli altri, e quando le teste furono tutte allineate riuscii finalmente a scorgerli: erano entrambi nella stessa fila, che parlavano. Ero quasi felice: Hunter e Cato amici? Perché no?

Ma in quel momento ero preoccupata che finisse tutto di nuovo, che mi venisse portato via tutto ,ancora.

La nostra annunciatrice era una ragazza abbastanza giovane, nuova da quello che sentivo mormorare dalle altre ragazze. Era vestita di un giallo brillante, con sfumature nere alquanto orribili alla vista, ma si sa che la gente di Capitol é assolutamente stravagante e che vive di una moda basata sullo sproposito, sull'eccesso. Portava un grande cappello con piume, credo di pavone, dipinte di oro, per brillare al sole. Era inesperta, lo si vedeva, ma riuscí comunque a mostrare entusiasmo per il filmato della memoria e , quando venne il momento, riuscí ad arrivare alla boccia.

Caló il silenzio. Tra i ragazzi c'era chi tremava, chi piagnucolava silenzioso, chi chiudeva gli occhi e stringeva forte i pugni, chi abbracciava il proprio vicino, chi si teneva per mano... E poi c'ero io: ferma e impassibile, con gli occhi puntati sulla boccia di vetro contenente quelle migliaia di striscioline su cui c'era scritto, in calligrafia bella chiara e leggibile, il nome di ognuno dei presenti.

La mano della giovane donna, di nome Bérénice, scorreva sui foglietti fino a quando non incontrò il pezzetto di carta col nome di una di noi, delle ragazze. Il nome venne letto e tutti si girarono contemporaneamente in una direzione sola, i volti delle ragazze erano sollevati ma in un certo modo tristi: perché gli Hunger Games come dividevano e rendevano meschina la gente, riuscivano anche ad unirla.

Non avevo sentito il nome. Presa dai foglietti e dal terrore, non lo avevo sentito. O forse non avevo solo voluto sentirlo. Non importava: Bérénice rilesse il nome, scandendolo lentamente, pur mantenendo quell'accento affettato di Capitol. Clove.

Il mio cognome non fu pronunciato, era stato tolto da tutti gli elenchi e anagrafi del distretto, io rimanevo solo Clove, per tutti. E non c'era paura di essere scambiati, perché di Clove ne esisteva soltanto una: io.

Mio padre aveva sempre detto di non desiderare troppo una cosa, di non renderla troppo vera nella mia mente, poiché essa gioca brutti scherzi, e poi si rischia di rimanerne delusi. Ovvio che ero solo una bambina, niente di più, e tutto quello che desideravo era rotolarmi nel fango e giocare per i boschi, inventando storie di briganti e cavalieri. Ma adesso capivo a cosa si riferiva: mi voltai un secondo verso Hunter e Cato, che mi guardavano come se fosse tutto un incubo da cui ci si può svegliare. Ma lo sapevano che non era cosí. Camminai verso il palco senza dover più spintonare gli altri per passare: ora mi facevano spazio, in segno di rispetto. Mi presentarono al pubblico e mi fecero sedere in un angolo; chiesero se ci fossero volontari. In un anno normale, ce ne sarebbero stati, e anche parecchi. Ma ormai i ragazzi avevano capito che la loro vita valeva più di gloria e ricchezza non tangibile: le nuove generazioni crescevano con una visione diversa da quella insegnatagli nelle accademie.

Nessuno alzò un dito, e abbassarono tutti la testa, per vergogna di fronte a me. Avrei voluto dirgli di non preoccuparsi, che non era colpa loro, che avrei fatto lo stesso... Ma fui bloccata. Bloccata da qualcosa di ancora più sconcertante della mia estrazione,in fondo ero brava, magari ce l'avrei fatta a tornare indietro: avevano estratto il nome del ragazzo, ed era Hunter. Ero sconvolta, non respiravo. Salí sul palco e lo abbracciai, perché non potevo non farlo: era il mio migliore amico, l'unico e solo che mi capiva. Mi strinse forte e poi ci divisero per chiedere se ci fossero volontari. Si alzò una mano. E in quel momento il mio cuore cessò di battere, il mio sangue di scorrere. Mi ero chiesta più volte che cosa si provava morendo lentamente, in agonia: questo, il vuoto. Si perché quella mano l'avrei riconosciuta tra mille, forse anche miliardi di persone: dita affusolate, ma forti; un palmo grande, a cui potevi aggrapparti; linee che disegnavano intrecci sulla pelle chiara: Cato.

Non ci vedemmo più, se non quando arrivammo nel nostro appartamento a Capitol City.

Passarono i giorni e Cato rimase completamente assente, a stento mi rivolgeva la parola. Nell'intervista non mi menzionò, non parlò di quello che ci avevano fatto, ed io feci lo stesso: mi dipinsi come una ragazza temibile e terribile, con la sola voglia di spargere sangue. Pensai che tra di noi fosse finita quel giorno che ormai sembrava lontano secoli. Ed invece mi sbagliavo. L'ultima sera, prima di entrare in Arena, rimanemmo abbracciati a lungo davanti alla finestra dell'appartamento. Eravamo gli sfortunati amanti del distretto 2, quelli di cui il mondo ignorava l'esistenza. Nonostante tutto la vita era riuscita a prendersi anche la mia ultima gioia, l'unica luce che filtrava nel buio del mio cuore, facendoci breccia.

Mi promise di proteggermi a tutti i costi, ma che nessuno, nessuno avrebbe mai dovuto sapere dei nostri sentimenti. Mi lasciò la mano, e quella, fu l'ultima volta che ci toccammo.

-Quello che non è stato raccontato - ClatoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora