09. Path to decay

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Canzone nei media:
The path to decay - Sirenia

"La verità si rivelasolo quando si rinuncia,a tutte le idee preconcette

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"La verità si rivela
solo quando si rinuncia,
a tutte le idee preconcette."
(Shoseki)


La prima notte che trascorsi tra quelle mura fu l'equivalente di un incubo. Impelagata in un ciclo di veglia e sonno profondo, alternati da improvvisi risvegli, mi ero destata verso le cinque del mattino e non ero più riuscita ad addormentarmi.

Per quella che mi era parsa un'eternità, ma che non potevano essere più di venti minuti, avevo camminato avanti e indietro, ordinandomi di mantenere una parvenza di calma. Verso le sei mi ero stesa sui cuscini del divano e per le seguenti due ore non avevo mosso un muscolo, mentre leggevo Anna Karenina. Ero consapevole che avrei potuto sfruttare quell'occasione per esplorare la casa e magari andarmene, ma il mal di testa che mi attanagliava le tempie mi rendeva difficile concentrarmi – motivo per cui avevo riletto circa quattro volte le stesse dieci pagine.

La somiglianza al risveglio del giorno prima mi angustiava, ma il dolore alla testa era l'unico sintomo; la sensazione di sfregamento ai condotti nasali e le vertigini erano cessate. Immaginai di sentirmi debole perché avevo bisogno di mangiare, dato che durante la prima – e speravo ultima – cena con i padroni di casa non avevo messo molto sotto ai denti. Il ricordo dei loro sguardi famelici persisteva nella mia mente, così come l'eccentrico comportamento di Aušrius e quello di falsamente indifferente di Victor.

Elemento degno di nota era il fatto che quella notte non avessi sognato l'Uomo dell'Incubo, bensì una serie di immagini caotiche ritraenti un sentiero attorniato da alberi. Da quando mi ero svegliata mi sentivo a disagio, senza capirne la causa.

Sfibrata avevo quindi atteso che qualcuno venisse da me per portarmi in cucina, dove mi sarei arresa all'evidenza di dover mangiare. Non volevo ingoiare un boccone del cibo di quella casa, ma lasciarmi morire di fame non era un'opzione.

Verso le otto Áshildur aveva bussato alla mia porta, con in mano un nuovo abito e una strana luce delusa negli occhi, e a malincuore l'avevo seguita nei corridoi principali. Non mi ero chiesta perché non mi avesse mostrato altre scorciatoie, la mia fronte pulsava troppo per pormi qualunque interrogativo, e docile l'avevo tallonata fino alla cucina.

Ora sedevo composta al tavolo: avevo trangugiato il mio latte di soia e svuotato metà della scatola di cereali, accompagnandoli a una brioche alla crema. Áshildur aveva aspettato che finissi, fino a quando una domestica molto in carne e dalla voce meccanica non si era presentata per riferirle che il buon padron Dimitar aveva chiesto di lei. Lei si era scusata e mi aveva pregata di attendere che tornasse, prima di dileguarsi nel nulla.

E così aspettavo, girandomi i pollici, con addosso un abito a dir poco scomodo che mi provocava prurito fra le scapole. Sapevo cosa sarebbe successo, una volta che Áshildur fosse tornata: durante la cena Dimitar mi aveva spiegato, a grandi linee, che avrei trascorso la mattinata in compagnia di Victor, nella biblioteca della residenza, dove questi mi avrebbe raccontato ogni cosa. Non serve sottolineare che a quelle parole in me era insorto un uragano e che alla mia reazione un sorrisetto strafottente aveva tirato le labbra di Victor. Temevo e anelavo di trovarmi nella stessa stanza con lui e mi inebriava il pensiero di quello che avrei potuto fargli: un'idea era colpirlo a morte con una sedia e ballare sopra alle sue ossa, dopo averlo... No.

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