2/2. Ranocchio.

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«Togliere? Come?», chiese il piccolo.

«Ranocchio non avrà la fidanzata prima di noi», disse quello minaccioso.

«Ah!», dissero tutti e quattro in coro, poi un bambino magro e dai capelli neri quasi rasati disse: «Posso provare io! Voglio avere io la fidanzata prima di lui!».

«La prendi tu?», domandò uno dai capelli rossi e fece le spallucce, «Non è male, è carina, ti starebbe bene».

Non seppi controllare perfettamente la mia espressione perplessa e sconvolta, quindi andai verso i cancelli per evitare gli attaccabrighe ma chiedendomi i perché. Perché lei? Perché sottrarla a chi? Perché una fidanzata? A nove anni? La fidanzata! Ma che programmi televisivi si guardavano, quei poveri ipnotizzati da chissà cosa? Irrazionali e piccoli animali. Ma forti. Ma veri forti? Forse c'era un modo finto d'esser forti, ma certo! Sì, ed era ben diverso. Se la forza era la forza d'esprimere il proprio volere, legato al proprio esistere e pensare. Copiare esempi forti era oscurare il proprio personale volere, la propria anima col suo proprio carattere! Copiare un esempio già forte era inoltre vile, cosa aveva a che fare la forza con questo? Oscurava la volontà, andava a braccetto con la viltà. Non era apprezzabile questo! Nemmeno da me!

Succedeva qualcosa, ma cosa?

Il giorno dopo, tornato in classe, sbirciai la situazione. Semplicemente nessuno importunava Angela e non successe altro di rilevante. In giardino trovai Alberto, poggiato ad un albero, ai margini del giardino: «Alberto!», lo chiamai, raggiungendolo.

Lui mi guardò, un poco triste e scocciato, «Come va?».

«Hai presente quella teca di cui parlavi? Per le formiche».

«Sì, certo. La voglio ancora».

«Sapresti davvero occuparti di una colonia?».

Notai con la coda dell'occhio delle bambine guardarci e ridacchiare. Non ci feci caso. Però la scena si ripeté con altri e poi con altri ancora.

Infastidito smisi di ascoltare le chiacchiere di Alberto che descrivevano precisamente come curarsi di una piccola colonia. Mi rivolsi a pugni stretti verso il primo gruppo che rise di nuovo di noi, acciuffai una di quelle bambine e le chiesi: «Ma che ridi? Che hai da ridere guardando in qua??».

«Lo fanno tutti...», si giustificò lei con occhi lucidi e senza senso.

La lasciai disgustato, «Tu pensi?».

«Io sì che penso!».

«Pareva...», le risposi ironico e lanciai un'occhiataccia ai bambini che guardavano verso di noi senza aggiunger niente. Poi guardai le sue amiche: «Chi ride? Chi ha iniziato?».

«Nicola!», disse una di loro, «Ma non fare il mio nome!».

E chi lo sapeva il suo nome? «Ti tiri fuori dai guai, eh? Cos'ha da ridere questo Nicola?».

La bambina, come sfidata, tentò allora di farsi forte ma dei balbettii uscirono dalle sue fragili labbra mentre i suoi occhi non desideravano che vedermi svanire: «Chiedilo al Ra... tuo amico».

Guardai Alberto che arrossiva come una femminuccia e alzai lo sguardo, «Che qualcuno mi dica! Dimmi! Alberto, dimmi! Cos'è sta storia? Date tutti di pazzo in questi due giorni!».

«Non voglio parlarne qua!».

«Ma sembra che tutti sappiano tranne me. Che cosa devi nascondere?».

«Non voglio affermare le loro parole! Scherzano pesante!».

«Ti ha offeso, eh, questo Nicola? E tu non li hai gli artigli?».

IL PIANETA DELL'INGANNO voi non siete soliWhere stories live. Discover now