Esiste un confine netto tra la coincidenza e la sfiga prestabilita e programmata da quel simpaticone del Destino? C’è una percentuale di sfortuna che ognuno di noi è costretto a preventivare ogni volta che mette piede fuori di casa? E, soprattutto, c’è una maniera delicata per mandare a quel paese il suddetto Destino senza inimicarselo a vita?

No, perché, seriamente: quante potevano essere le probabilità che, in un mio momento di poca lucidità, quel cretino di L avesse l’ardire di baciarmi di nuovo e che il tutto avvenisse sotto gli occhi sbigottiti del ragazzo su cui ora sono concentrate le mie attenzioni e da cui, da almeno quaranta secondi, non riesco a spostare lo sguardo?

Il mio cuore deve aver iniziato a battere allo stesso ritmo di quando i miei mi chiedono delucidazioni sui miei esami (quindi parecchio, parecchio veloce; al limite del panico) nell’istante in cui ho incrociato le sue orbite blu e sul suo viso ha preso vita un’espressione di totale stupore. All’improvviso è come se tutto l’alcol che ho ingerito fosse affluito alle mie tempie e la mia capacità di vedere in modo nitido fosse venuta meno.

Non riesco a spostare lo sguardo da Alex e dalla sua postura tesa: se ne sta fermo immobile, protetto da un vetro che fa da barriera ai suoi pensieri, ma non alla scena che ha appena avuto luogo. È vestito con una divisa, suppongo da cuoco, nera; in una mano regge una padella e nell’altra un canovaccio: i suoi occhi restano allacciati ai miei e, quando per un istante sposto lo sguardo su una delle sue mani, realizzo che le nocche sono bianche per quanto forte sta stringendo l’oggetto che impugna.

Torno a cercare il suo viso che ora è concentrato sul retro della nuca di L, ed è allora che le mie attività cerebrali si riattivano e mi rendo conto di cosa sta succedendo e, per la seconda volta, capisco di essere una grandissima testa di cazzo (sia per aver bevuto, che per essermi distratta): quel verme di L sta baciando con insistenza il lato del mio collo, assolutamente ignaro di ciò che accade alle sue spalle e dello scambio di sguardi appena avvenuto tra me e Alex.

Sembra davvero troppo preso dal suo tentativo di farmi sapere che, nonostante tutto, io sono territorio suo, per essere cosciente di quanto assente io sia e di dove realmente sia con la mente: da Alex. Perché più i suoi occhi assorbono i movimenti di L contro la mia pelle, più il suo viso si rabbuia e più io mi sento intorpidita.

Questo deve essere uno dei quei sogni surreali in cui lo scopo di Morfeo è quello di farti imbarazzare il più possibile e di farti percepire la situazione con il più alto livello di disagio: come quando sogni di essere a scuola e di non avere le scarpe. E tutti se ne accorgono. O come quando sogni di spogliarti in mezzo al supermercato e sai di avere addosso un paio di mutande orrende, ma non riesci a fermarti. Ecco, questo deve essere uno di quei sogni, per forza, perché la delusione sul volto di Alex è qualcosa che mi sta facendo entrare in uno stato di fortissima ansia.

“Quell’Alex non ti sa baciare così, vero?” mormora L contro la mia pelle, ed io mi risveglio dal mio fottuto stato di incredulità e recupero il controllo della situazione.

L ha veramente passato ogni limite: se non capisce con le buone quale sia il confine che può avvicinare, lo capirà con le cattive.
Il mio coinquilino non si è ancora mosso dalla sua posizione e io vorrei non dover lasciare il suo viso, per paura di rompere una connessione di cui ho bisogno; ma ho seriamente necessità di chiudere definitivamente ogni possibile strascico a cui L si aggrappa e dimostrargli che non gli permetterò mai più di trattarmi come una ridicola pezza da piedi.

Recupero ogni pagliuzza di forza nel mio corpo e la concentro contro le spalle di L, spingendo con rabbia e repulsione.

“Sei un vero coglione.” ringhio, spingendolo lontano da me e lui oppone resistenza, ridacchiando meschinamente di fronte alla mia inferiorità muscolare per poi cercare di aggrappare nuovamente le sue dita attorno ai miei fianchi.

“Che ti prende? Lo sai che lo volevi anche tu.”

Dopo la cazzata della settimana appena proferita dal presente imbecille, lo faccio: quello che ogni donna rancorosa sogna di fare ma che le convenzioni sociali e la morale vietano.

Siccome sono ubriaca, arrabbiata, e ho fretta di raggiungere Alex - oltre al fatto che sono una brutta persona e che le convenzioni sociali mi hanno stancato - io lo faccio: concentrando tutta la rabbia che conservo da tempo nei suoi confronti, lo allontano e, con infinita soddisfazione, gli tiro uno schiaffo.

Bello forte. Di quelli che, spero, lasciano le cinque dita stampate sulle pelle: lui barcolla indietro, sconvolto dalla mia reazione e, massaggiandosi la guancia, mi guarda allibito.

“Sei impazzita?” mi chiede balbettando. Priva di qualunque desiderio di spiegare (per l’ennesima volta) a L perché non lo voglio più nella mia vita, mi limito a sibilargli di starmi lontano e, oltrepassandolo, spalanco la porta a vetri dietro cui Alex - immobile - continua a guardarmi.
Ma L sembra non voler capire l’antifona: cocciuto, mi prende per un gomito, nel tentativo di fermarmi; poi il suo viso incontra quello di Alex e sulle sue labbra prende vita un sorriso vittorioso. I due si fissano, in un silenzioso scambio di parole, mentre Alex aggrotta le sopracciglia, confuso e arrabbiato.
“Vattene...” sibilo un’ultima volta ma L non risponde: i suoi occhi restano incrociati con quelli del mio coinquilino ed è evidente che l’unica cosa che conta in questo momento è la sua erronea convinzione di aver vinto l’inesistente confronto tra loro.

“Falla finita. Hai veramente superato il limite: vai via, ok? E piantala di fare a gara con Alex: se davvero ci fosse competizione, tu perderesti.”

L sposta lo sguardo da me ad Alex; si decide ad allentare la presa e lascia ricadere il mio braccio lungo il fianco. Poi indietreggia, ignorandomi e alzando le braccia in segno di finta resa e si allontana: quel ghigno consapevole sempre stampato sul suo volto ed i suoi occhi ancora su Alex.

Io sospiro, decisamente sconcertata dagli ultimi eventi ma più che decisa a cancellare L dai miei ricordi per concentrarmi su Alex: spingo la porta della cucina, scuotendo il mio coinquilino da quello stato pietrificato in cui era rimasto fino a quell’istante.
“Signorina, mi dispiace, ma non può entrare qui!” mi fa notare un collega di Alex, parandomisi davanti e invitandomi ad uscire con un gesto della mano.

Io ignoro il ragazzo e mi faccio strada dentro la stanza, ma Alex, una volta realizzato il mio intento, si allontana veloce da me ed inizia a muoversi con frenesia tra i fornelli.

Ma io non mollo.
“Alex, non è come sembra...” sussurro alle sue spalle, mentre lui prosegue con abilità nel suo lavoro.

Che frase idiota: ovviamente io non me ne potevo uscire che con una frase inutile come questa.

“Med, devo lavorare.” risponde semplicemente lui, senza guardarmi e portando tutta la sua attenzione su un delizioso risotto ai funghi.

Per qualche istante mi lascio distrarre dalla leccornia e mi domando se sarebbe inopportuno chiederne un assaggio: voglio dire, ha davvero un’aria invitante! Poi mi ricordo che qui c’è in gioco qualcosa di più delle mie golose papille gustative quindi, scuotendo il capo, mi porto alla sua destra e sparo la successiva ovvietà:

“Alex, ti giuro che non è andata come pensi tu.”

Oh, mio Dio: sono veramente patetica! Sono le regina delle ciccione patetiche. Oltre ad essere una vera imbecille e, probabilmente, essermi bruciata ogni occasione con Alex. Le mie sorelle sovrappeso mi rinnegherebbero a vita e mi caccerebbero dal club Solo per taglie forti.

“Med, io non penso niente. Ora vattene. Non ho tempo per te o per queste cose, adesso.” ribatte aggressivo, mescolando rabbiosamente il risotto e allontanandosi da me di qualche passo: e più si sposta, più mi convinco che non posso uscire di qui prima di avergli spiegato.

Non so perché è così importante che mi ascolti, ma poco conta.

“Signorina, per favore, devo chiederle di uscire...” incalza il ragazzo di prima, distraendomi dal mio complicatissimo compito di chiarire la mia posizione, ma io continuo a fingere di non sentirlo.<

“Alex, cazzo, fermati un secondo. Devi starmi a sentire.” insisto continuando a muovermi dietro di lui, incurante degli occhi dei suoi colleghi fissi su di noi.

Alle figure di merda ci sono abituata.

“Io non ti devo niente. Onestamente, non me ne frega nulla di quello che hai da dire.” rilancia, voltandosi di scatto verso di me ed i suoi occhi sono gelidi. Gli stessi occhi che di solito sembrano scintillare, ora paiono di vetro.

Ho fatto una... No! L ha fatto una cazzata!

“Che vuoi dire?” chiedo io tentennante.
Il silenzio che segue è completamente intriso del suo rancore, ma non è assolutamente sufficiente a prepararmi alla risposta che lo rompe poco dopo:
“Voglio dire che voglio che tu esca da quella porta, ok? Non ho tempo di stare a sentire quello che vuoi dirmi. Sei libera di fare quello che ti pare della tua vita. Avrei dovuto capirlo prima che ti avevo sopravvalutata.”

Le sue parole tagliano come rasoi. Sono volutamente cattive ma, cercando nei suoi occhi, spero di trovare un segno che mi faccia capire che non pensa davvero quello che ha detto. Al mio primo tentativo di incontrare le sue iridi, Alex abbassa il viso e riprende a lavorare con frenesia.
“Ti sbagli...”
“Ti chiederei di dimostrarmelo, ma non è questo il momento.” risponde secco, lasciando andare gli strumenti che impugnava e voltandosi verso di me così in fretta che mi ritrovo a indietreggiare di un passo; le sue mani si stringono in due pugni pieni di astio e i suoi occhi evitano i miei, optando per fermarsi sulle mie labbra.

Tento il tutto per tutto, consapevole del rischio che corro, appoggiando una mano sul collo: tutto il suo corpo si irrigidisce al contatto, ma riesco a costringerlo a guardarmi e, soprattutto, lui non si ritrae.
I suoi occhi, intensi più che mai, collidono con i miei, e sono carichi di rabbia, incertezza, disapprovazione.
“Perché non mi hai detto che lavoravi qui?“ gli mormoro piano mentre, con una eccessiva dose di audacia, lascio scivolare due dita tra i capelli sulla parte bassa della nuca.

Se si incazza, mi arriva un ceffone come quello che ho appena tirato io a L; e me lo meriterei tutto. Se scherzi col fuoco, sentirai odore di pollo bruciato perché ti sarai incenerito i peli delle braccia. È scientificamente provato.

Per qualche ragione, però, lui non reagisce al mio azzardo, molto più interessato a sottolineare quanto inopportuna sia la mia domanda.

“Credi davvero sia questo il momento di parlarne?” chiede quindi scettico, esternando il suo dissenso per la mia curiosità con una risatina incredula.

Unitevi a me, oh gente, nell’applauso alla mia stupidità. Sto peggiorando la mia situazione ad ogni frase proferita e, guardandolo in faccia, sento un nodo formarmisi in gola: cosa diavolo sto facendo?

“No, hai ragione, non lo è. Ti lascio lavorare, ma promettimi che quando torniamo a casa mi lascerai parlare.”
“Med, non mi devi dire nulla. Io non sono il tuo ragazzo.”

Nella sua voce si percepisce solo irritazione e la tensione che ha irrigidito ogni muscolo del suo collo è viva sotto il palmo della mia mano:

“Lo so, ma voglio che ne parliamo.” ribatto impedendogli di distogliere lo sguardo da me.
I suoi occhi blu, scuri per la rabbia e per il carico emotivo che li adorna, scrutano i miei per pochi attimi e so che lo sta facendo di nuovo: cerca ancora di leggermi dentro ma io, questa volta, non pongo barriere. Lascio che cerchi le risposte che vuole.
Poi, da un secondo all’altro, rompendo il pesante silenzio con un rapido “ok”, cerca di voltare la testa e di liberarsi della mia mano che ancora giace appoggiata sul lato del suo collo.

“Alex, non sei in pausa. Torna a lavorare!” urla una voce alle mie spalle. Scosso dall’ordine, si libera della mia presa e si concentra sul suo risotto.
“Sei arrabbiato?” mi trovo a bisbigliare, sicura che qualunque risposta non sarà quella che avrei voluto.

Perché se dicesse sì, mi sentirei in colpa per averlo deluso e perché, per una sciocchezza, ho rovinato qualcosa che doveva ancora nascere. E se dicesse no, sarebbe ancora peggio: vorrebbe dire che non gli importa, che non c’era alcuna possibilità che nascesse qualcosa e che sto facendo solo la figura dell’idiota.

“No.” risponde secco, ma non mi guarda mentre lo dice.

Tac! Ovviamente... Però la sua voce lascia trapelare esattamente il contrario: e, poiché sono di natura una a cui piace illudersi, sceglierò di credere che ha mentito e che c’è ancora qualcosa che posso fare.

“Alex, guardami!” gli ordino piano. Ma lui non lo fa.
“... per favore” supplico un’ultima volta.

Ruota per un secondo il viso verso di me, aggrotta la fronte sorpreso e mi chiede.
“Sei ubriaca?” Io arrossisco per l’imbarazzo ed annuisco.
“Abbastanza. Anzi, parecchio direi.”

Lui scuote la testa, credo in un gesto di disapprovazione, ma, conoscendolo, potrebbe anche essere per divertimento.
Cerco di sussurrare il suo nome ancora una volta, ma lui mi blocca.
“Ti prego, Med, lascia stare, ok? Ho un sacco di lavoro da fare e tu non dovresti essere qui. Mi metterai nei casini...”

“Ehi, San Francisco, se ci tieni a mantenere il tuo posto di lavoro, chiedi cortesemente alla signorina di uscire e rimboccati le maniche, o puoi anche non scomodarti a tornare domani.” strilla la stessa voce autoritaria di prima alle mie spalle e la cosa allarma incredibilmente il mio coinquilino che, d’un tratto, assume una postura preoccupata e di subordinazione.

“Hai sentito? Te lo chiedo per favore, vattene.” sussurra, distogliendo l’attenzione da me e regalando il suo sguardo ad una pentola fumante di risotto. 
“Ok, scusami.... mi dispiace” bisbiglio, lasciando andare il suo braccio e voltandomi.
Fatto il primo passo, sento la sua mano afferrare le mie dita e, con uno strattone veloce ma delicato, voltarmi nuovamente verso di lui.

“Ci vediamo a casa” sussurra guardandomi negli occhi, con uno sguardo che non so decifrare “E, sì Med, sono arrabbiato. Ora vai...” conclude, lasciando cadere la mia mano e dandomi le spalle.
Mentre mi avvio fuori dalla cucina, sono consapevole delle occhiate confuse e curiose che i colleghi di Alex mi lanciano furtivamente, ma non mi importa.
Appoggio entrambi i palmi sul vetro della porta e spingo, lasciando un Alex infuriato, mille domande, nessuna risposta e tante parole soffocate, alle mie spalle.

Non posso restare un minuto di più e non voglio rischiare di finire di nuovo in qualche situazione assurda con L; sono ancora ubriaca e non ho più le forze di proseguire con una serata che avevo predetto sarebbe stata difficile, ma che non potevo immaginare sarebbe andata così male.
Cercando di barcollare il meno possibile torno al tavolo dai miei amici per raccogliere la mia roba e lasciare i soldi: i loro sguardi interrogativi si piantano tutti sul mio viso ma il mio bisogno di fuggire da lì è più forte di qualunque altra cosa.

Bisbiglio a Bet e Jules che racconterò tutto domani, ma che ora me ne devo davvero andare e gli occhi irritati di Leo sfrecciano sul mio viso nuovamente: strike 2, Med.

Se c’è una cosa che ha sempre creato problemi tra me e Leo, è la mia tendenza a tenere tutto dentro finché non scoppio: è un atteggiamento che lui ritiene inutilmente doloroso e potenzialmente deleterio per i rapporti.

Ha ragione, ma a me non è mai importato più di tanto: stasera mi interessa ancora meno. Il mio amico dovrà conservare l’ira per quando sarò sobria e, soprattutto, quando non avrò un L che mi fissa soddisfatto e il pensiero degli occhi gelidi di Alex stampato in testa.

“Ma come pensi di tornare a casa?” chiede preoccupata Jules mentre io mi infilo il cappotto in modo goffo e stringo tra i denti il manico dell’unica pochette che posseggo.
“Prendo un taxi. Prometto che vi spiegherò tutto: ora però ho davvero bisogno di andare via di qui...” mi limito ad asserire dopo aver dato un bacio veloce ad ognuno di loro e dirigendomi velocemente verso l’uscita.

Appena metto piede fuori dal locale il mio cellulare suona, avvisandomi dell’arrivo di un sms di Bet che, allegando una faccina preoccupata, chiede cosa diavolo mi è preso e se lei e Jules mi devono seguire. Rispondo con un telegrafico “No, tranquille. Ho solo bisogno di stare da sola, ma grazie!” per poi dedicarmi all’impresa di fermare un taxi: venti minuti più tardi mi trovo sul sedile posteriore di una macchina che puzza di fumo di sigaretta, mentre un simpatico autista croato - che è sposato con tre figli, a suo dire e che mi invita ad andare in vacanza nel suo splendido paese l’estate prossima - mi racconta di quanto bravo sia a scuola il suo secondogenito.

Io sorrido come una marionetta ad ogni sua affermazione ma, in realtà, l’unica cosa che faccio è ripensare ad Alex e chiedermi perché, all’improvviso, è così importante per me che lui capisca cosa è successo. Perché dopo quel bacio il mio coinquilino è passato dal podio della lista di quelli che mi stanno sulle palle, al primo posto di quella di ragazzi con cui vorrei stare?

E più ci penso, più credo che Jules abbia ragione: Alex mi è sempre piaciuto. Il suo stupido modo di flirtare mi irritava perché mi piaceva: perché mi lusingava e perché, per una volta, sentivo che le attenzioni di qualcuno nei miei confronti erano genuine. E, per una come me, la cosa era talmente surreale che non potevo fare altro che risentirmi nei suoi confronti: perché aveva invaso il mio spazio vitale; perché si era insinuato nella mia quotidianità con naturalezza; perché quando discutevo con lui mi dimenticavo che avevo un grosso nodo in fondo allo stomaco che da sei mesi mi divorava; perché lui era un bel ragazzo e i bei ragazzi non flirtano con le ragazze stronze e col sedere grosso.

Mi irritava perché non era il ragazzo perfetto e dolce per cui avrei dovuto perdere la testa nelle mie recondite fantasie: era un frizzante ventottenne che si divertiva a provocarmi e che se ne usciva con frasi inopportune, che non si faceva problemi a invadere la privacy altrui (ricordiamo il problema cacca) e che si faceva i fatti miei senza raccontare assolutamente nulla di sé. Non era ciò che sognavo quindi, per questo stesso motivo, era proprio quello che volevo.

Che voglio.

Perché è reale.
Perché è imperfetto.
Perché è genuino.
Perché è Alex.

Non ho un’idea precisa di quanto tempo ho passeggiato distrattamente per il quartiere dopo che mi sono fatta lasciare all’angolo di casa mia dal taxista (combattendo con un fortissimo desiderio di fumarmi un intero pacchetto di sigarette), prima di ritrovarmi sotto casa ma, guardando lo schermo del cellulare, vedo che è passata l’una di notte e sono certa che, ormai, anche Alex sarà a casa.
Con l’ansia che sale, apro il portone del palazzo e mi trascino con cautela su per le scale con la tensione che si accumula nel mio corpo, mano a mano che mi avvicino al mio appartamento: arrivata al terzo piano mi faccio coraggio e mi avvicino alla porta.

Poi, a conferma di quanto codarda realmente io sia, appoggio un orecchio contro il legno per cercare di capire se il mio coinquilino è dentro e, con mio stupore, sento Alex gridare in inglese:

“That’s not why we are talking. This has nothing to do with me.... No, I’m not asking, I’m telling you...” poi una pausa breve, prima che la sua voce torni a riempire il silenzio.

“Well, I appreciate the interest and I don’t mean to be rude, but this is none of your business... No, no, I don’t care what Adam told you. He wasn’t supposed to say anything and I really don’t know what you expect me to do... I don’t wanna discuss that with you, for God’s sake! No, dad, don’t put her on the phone I really don’t... dad? Dad?! Damn!”

La curiosità inizia a farsi insopportabile mano a mano che le proteste di Alex proseguono e, quando rivela che il suo interlocutore è il padre, mi ritrovo a spiaccicarmi come una platessa contro la porta, nel tentativo di non farmi sfuggire neppure una parola. I genitori di Alex sono ancora svegli all’una di notte? I miei sono in fase di mummificazione a quest’ora, ne sono certa.

“Hi yeah, no, everything is fine. No, mom, I’m sorry but I don’t need this: I’m 28 and I can take care of myself.”

Beato lui.

“I’m not discussing this kind of things with you guys... I did! Well, it obviously didn’t work out or we wouldn’t be having this conversation. I... maybe Adam should pay more attention to his own problem and keep his nose out of my business... Are you kidding me? You seriously don’t know what his problem is? That’s amazing... Ok, well--”

Il mio coinquilino si interrompe di colpo nel momento in cui io infilo la chiave nella serratura; poi lo sento tagliare la telefonata e abbassare il tono della voce.

“Listen, I’ve gotta go now. Thanks for asking but, like I said, I’m a grown ass man, I can handle my business.”

Conclusa la telefonata, l’appartamento cade nel silenzio più totale e io ripeto nella mia testa le parole che ho appena sentito dire da Alex.

Dunque: litigava con i genitori perché sembravano chiedere spiegazioni su qualcosa che un certo Adam gli aveva riferito. Apparentemente qualche problema personale di Alex che, però, pare pensare che il suddetto Adam dovrebbe preoccuparsi di più del suo problema e tenere il naso fuori dagli affari suoi. In conclusione Alex ringraziava, si fa per dire, per l’interessamento ma rifiutava un aiuto perché sostiene di avere ventotto anni e potersi occupare da solo dei propri affari.

Perfetto: non ho capito assolutamente nulla e ora sono divorata dalla curiosità.

Scuoto la testa. Per quanto mi sforzi di capire la conversazione, continua a non avere senso. È inutile provarci.

Aspetto ancora qualche secondo fuori dalla porta: un po’ per concedere ad Alex il tempo di ricomporsi, e un po’ perché ho una paura fottuta di affrontarlo.

Come ho fatto a creare tutto questo casino?

Sospiro e faccio ruotare la chiave nella toppa. Basta tergiversare.
Spingo piano contro il legno della porta e, silenziosamente, mi faccio strada dentro il nostro appartamento.
Quando raggiungo il salotto, l’immagine che mi si presenta davanti agli occhi crea un nodo di tristezza nel mio stomaco.
La stanza è immersa nella penombra, illuminata solo dalla luce dei faretti della cucina: il cellulare di Alex è appoggiato sul tavolino e si illumina ad intermittenza, segnalando una chiamata in arrivo.

Una chiamata a cui lui non sembra essere intenzionato a rispondere.

Il mio coinquilino è seduto sul bordo del divano e mi dà le spalle: i palmi delle sue mani sono premuti contro gli occhi, quasi cercasse di nascondersi dal mondo; la testa china e le spalle basse, come se si fossero lasciate andare sotto il peso che le opprimeva. Ha addosso un paio di jeans e una maglia a maniche lunghe nera: ai miei occhi sembra estremamente vulnerabile, ma intimidatorio allo stesso tempo.

Non so se si è accorto della mia presenza nella stanza, ma se l’ha fatto, sembra che la cosa non lo tocchi perché non si muove dalla sua posizione: rimane zitto e fermo, intrappolato in non so quale spirale di pensieri.
Aggiro il divano e mi fermo in piedi di fronte a lui; poi gli sfioro i capelli e la sua reazione mi sconvolge: si ritrae all’istante dal mio tocco, si alza in piedi velocemente e, in un battito di ciglia, è dall’altra parte della stanza.
Io mi volto verso di lui e incontro i suoi occhi: sono così scuri da sembrare quasi neri e il suo sguardo equivale a un centinaio di lame conficcate nel petto.

“Ce ne hai messo di tempo. Immagino la tua serata si sia conclusa nel migliore dei modi.”

Io ignoro la sua domanda, piena di sarcasmo e cattiveria, e domando:
“Stai bene? Che è successo?”
“Non sono affari tuoi.” sputa lui, lanciandomi l’occhiata più crudele che abbia mai visto sul suo viso.
“Alex...”
“No, stanne fuori, Med. Fatti i cazzi tuoi, ok?”
Io resto quasi inebetita dalla potenza del suo tono; Alex non mi ha parlato così ed io non so cosa rispondere.

Deglutisco a fatica e abbasso il volto: normalmente arriverebbero le sue scuse per come mi ha riposto, ma nessuna sillaba lascia la fessura tra le sue labbra.
“Credevo dovessimo parlare...”
“E invece ho cambiato idea. Ho deciso che non ne vali la pena, Med.” ringhia senza spostare gli occhi da me.
A questa frase il mio viso scatta in su e non riesco a controllarmi. Attraverso il salotto a lunghi passi e mi posiziono di fronte a lui, cercando nei suoi occhi. Che cosa di preciso non lo so, ma almeno qualcosa che mi suggerisca che non sta dicendo sul serio.

Ma non trovo nulla al di fuori della rabbia.

“Che cazzo ti è preso?!” bisbiglio appoggiando una mano sul suo braccio.
“Non toccarmi, Med.” ribatte lui scrollandosela di dosso.

Il fatto che continui a ripetere il mio nome, non so perché, ma rende le sue parole ancora più cattive. Forse perché inconsciamente avrei voluto credere che tutta questa rabbia non fosse rivolta davvero verso di me.
Io lo fisso e prendo un sospiro vibrante: i suoi occhi si addolciscono un po’ e mi illudo che, a breve, le sue labbra sussurreranno un sottile “mi dispiace”.

Ma quelle parole non arrivano; al loro posto ne escono invece alcune che mi distruggono.

“Devo complimentarmi per la performance?”
 E allora resto davvero a corto di risposte.

Come si controbatte ad una frase simile?

A questo punto il silenzio diventa troppo pesante, faccio un passo indietro, mi volto e, lentamente, mi dirigo verso la mia camera.
“Dove pensi di andare?”

È pazzo. Sono certa che converrete con me che è fuori come un balcone.

Io mi blocco nuovamente perché, a questo punto, l’orgoglio ha la meglio. Devo per forza essermi persa un passaggio, perché non c’è nulla che io riesca a trovare che possa spiegare la crudeltà che si è impossessata di Alex.

“Che vuoi che ti dica?” gli chiedo sospirando spazientita e ancora stupita dal suo modo di affrontare la cosa.
“Voglio che mi dici se ti è piaciuto. Voglio sapere se hai così poco rispetto per te stessa da provare piacere nel farti sbattere da uno che si è approfittato di te per anni e nel frattempo si divertiva a giocare al dottore con mezza città. Voglio che mi dici perché nel mio cervello era giusto starti lontano per non rischiare di complicarci ancora di più la vita o ferirci. Voglio sapere perché alla fine invece mi hai dimostrato che sei solo senza morale e che non ha un briciolo di amor proprio.” mi urla in faccia, pietrificandomi.

“Mi stai dando della puttana?”
“L’hai detto tu, non io...”

E le sue parole sono così taglienti che il mio cervello non riesce a formulare nessuna risposta se non un patetico:
“Avevi detto che mi avresti lasciato parlare.”
“Le parole sono sopravvalutate, Med. Quello che conta sono i fatti. E i fatti mi dicono che la stronza sei tu, e quello ferito sono io.” conclude lui voltandosi e allontanandosi da me.

Poi lo vedo raccogliere la giacca dal bancone della cucina ed estrarre il suo mazzo di chiavi, prima di raggiungere l’entrata di casa a lunghi passi e abbassare la maniglia.

“Ma dove vai?!” domando alzando la voce, ma il mio quesito resta senza risposta: l’unico rumore che segue le mie parole è quello della porta che sbatte quando lui esce.

Ed io mi ritrovo sola in mezzo al salotto, nel silenzio di questo appartamento che, all’improvviso, sembra enorme e terribilmente freddo: resto imbambolata al centro della stanza per non so quanto tempo, convinta che, da un momento all’altro, il gemello buono di quell’Alex con cui ho appena litigato (non si sa bene neanche perché, visto che fino a prova contraria io e lui non stiamo insieme; il che dovrebbe ridimensionare ogni tipo di sceneggiata che uno può fare all’altro) rispunti da dietro la porta e mi dica che mi stava prendendo per il culo.

E invece nulla di tutto ciò succede: due ore dopo mi infilo sconsolata il mio pigiamotto e sguscio sotto le coperte, sicura che il mattino seguente lui si sarà calmato (e avrà preso delle medicine per quel suo evidente disturbo psicologico!) e potremo parlare civilmente.


SI INVITA IL GENTILE LETTORE AD ALLONTANARSI DAL PC E INSERIRE UNA MASSICCIA DOSE DI CAFFEINA O TEINA NEL PROPRIO ORGANISMO: LA STRADA VERSO LA FINE DEL CAPITOLO è ANCORA LUNGA.



Ma anche la mia seconda ipotesi viene confutata: al mio risveglio la casa è esattamente come l’avevo lasciata la notte prima e di Alex non c’è alcuna traccia.
La porta della sua stanza è spalancata: dopo essermi avvicinata con un’aria un po’ sconsolata, mi appoggio allo stipite della porta, decidendo che può andare a farsi benedire e che non aveva alcun diritto di trattarmi in quel modo.

Dunque, con l’eleganza che mi contraddistingue da sempre, mi spingo lontana dalla porta e mando a ‘fanculo la stanza di Alex con il terzo dito: e mi sento subito incredibilmente meglio.
Mi dedicherò a questo rito più volte durante la giornata odierna, fino al ritorno di quel troglodita.

Poi, sollevata, mi abbandono ad una serie di insulti più che leciti nei confronti sia di L che di Alex, facendo colazione in conference call su Skype con Bet e Jules, per aggiornarle come si deve sui fatti della sera precedente.

Bet avanza l’ipotesi di denunciare L per molestie sessuali; poi però ritratta perché dice che, avendolo schiaffeggiato, se lo provocassi rischierei una querela per percosse. Io, con la bocca stracolma di plum cake inzuppato di caffè (plum cake di Alex, si intende: il furto di cibo fa sempre parte della mia vendetta, insieme al dito medio verso la stanza), domando:

“Scusa, ma la legittima difesa?”
“Sei più grossa di lui: non ti crederebbe nessuno.” risponde lei prima di imprecare perché, come ogni santa mattina, ha immerso troppo a lungo il biscotto nel caffellatte e le è ricascato nella tazza.
“Che stronza, Bet!” la apostrofa Jules masticando i suoi special K e dichiarando estasiata:
“Io sono troppo felice di tutta questa storia!”
“Ma che... Jules, ma vai a farti benedire!”
“No, cioè, mi dispiace che tu abbia dovuto tollerare la lingua di L nella tua bocca e mi rammarico che tu abbia visto svanire il pisello di Alex...”
“... così, da davanti al naso...” incalza Bet, ridendo.
“... insomma, ce l’avevi in pugno!” conclude Jules mentre io osservo indifferente lo schermo del pc.

“Aveva il pisello di Alex in pugno?!” urla Bet euforica e stupita “Ma quando l’ha detto? Me lo sono persa!”

“Non ho mai avuto il pisello di Alex in pugno, bionda stupida!” mi intrometto per un attimo, prendendo un secondo plum cake e fissandolo con aria minacciosa: ne mangerei un altro solo per rendere la mia vendetta più realistica. Poi, però, Jules ricomincia a parlare e io mi distraggo dai miei intenti criminali:

“Testa di gallina! Parlavo in senso metaforico! Comunque, sono molto contenta perché Alex è chiaramente pazzo e io posso fare una tesi su di lui!”

Da quel momento in poi il delirio ha la meglio su qualunque auspicabile parvenza di senso; per più di un’ora me ne sto in pigiama a ridere con le mie diversamente intelligenti migliori amiche.
Quando le saluto, però, il silenzio della casa torna a farsi sentire freddo e costante: credo che oggi potrebbe essere una giornata no.

Osservo la mia immagine riflessa nel vetro del forno e, come un vera cretina, mi faccio una domanda che, ad alta voce, non mi sono mai rivolta:

“Med, ma che cos’hai? Che c’è che non va?”

Ma il mio riflesso non parla: resta zitto a fissarmi e aver sentito quelle parole pronunciate dalla mia voce, è stata una delle cose più brutte degli ultimi sei mesi.

L'imbarazzante piacere del TuttoTondoWhere stories live. Discover now