Gennaio 1997

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"Malizia. Profumo d'intesa."

Finalmente anche noi, con un mezzo secolo di ritardo siamo entrati, o meglio cascati, nella Rete (con la maiuscola, come si addice agli introdotti). Il merito di averci avvicinato a Internet è di Giovanni. Come poteva essere altrimenti? Per Natale ha ricevuto in regalo da suo padre un computer portatile da paura, un aggeggetto che arriva dritto dritto da un film di James Bond. E dato che tutti gli altri gadget della serie li aveva già comprati e ostentati (bmw z3 compresa), non poteva evitare di sbatterci sul grugno anche questo. Quando l'ha portato in via Sarchiapone, estraendolo da una cartella griffata di pelle grassa, cara all'incirca quanto il pc, si è giustificato dinanzi a me adducendo che la connessione da casa sua ultimamente non era abbastanza veloce e che voleva provare se da qui funzionava meglio. Così si è comprato un modem nuovo, una scheda pcmcia, qualche chilometro di cavetto telefonico e, zac!, ha aggiunto un nodo in più alla Rete delle reti (sempre con la maiuscola, diamoci delle arie). All'insegna dell'informatizzazione planetaria (in merito alla quale Paolo ed io abbiamo idee completamente diverse, ritenendo lui che sia il frutto di una cospirazione tesa a isolare ancor più i ricchi dai poveri, credendo io l'esatto contrario, ovvero che sia un'arma emancipatrice a disposizione del popolo), tutto ciò sarebbe un grande progresso almeno per la nostra microcomunità, a patto che: 1) Giovanni non tenesse la linea telefonica perennemente occupata e 2) lasciasse usare il computer anche a noi. In questo senso i fatti sembrano dare ragione a Paolo. La sperecuazione è palese. Finora non c'è stato verso di scroccare nemmeno una casella di posta elettronica gratuita, non dico navigare gratis. La nostra unica consolazione è immaginare la faccia di Giovanni quando arriverà la bolletta Telecom dettagliata, sulla quale io, in uno dei miei impeti da giustiziere (sempre più frequenti, sconnessi e quindi pericolosi), proprio io, evidenzierò con un pennarello rosso inferno la sua gigantesca, roboante, gonfissima quota. Forse è la volta che gli si scompiglia il ciuffetto sulla fronte.

Quanto alle navigazioni mie: bonaccia. Seduto su una sedia girevole (comprata di seconda mano da un rigattiere) alla scrivania in falso legno (in realtà è cartone pressato misto a resine sintetiche, i cui miasmi s'insinuano nei miei polmoni una riga di tesi dopo l'altra), mi accanisco miopemente sui tasti con soffocata ostilità durante una mattinata padana sospesa nella brina. Dalla finestra affondano spasmi di lattiginosa luce bianca, giusto quello di cui ho bisogno per veder sfarfallare più del dovuto i pixel dello schermo. Il mio regalo di laurea sarà una visita dall'oftalmologo.

«Legga i numeri.»

«Non ci riesco. Mi traballa la vista.»

Mi traballa la vita, altroché. La tesi mi oscilla attorno con l'estenuante ciclicità di un pendolo senza attrito. Fugacemente, a tratti, mi rendo conto che sto sciorinando da cinquanta pagine la stessa idea in cento modi diversi. Nella precaria economia del mio equilibrio studentesco questa non è proprio una bella scoperta. La conseguenza illogica (eppure non sorprendente) è che Valvassore sembra soddisfatto dal lavoro svolto. Il nulla concettuale è assai gradito in ambiente accademico, soprattutto se guarnito con un vocabolario sufficientemente criptico. E in questo sono un esperto, sono contorto dentro, una specie di uomo-sifone (se solo al circo ammettessero anche i prodigi mentali, avrei il futuro assicurato). Ho comunque un dubbio opprimente: che Valvassore non abbia ancora letto una sola riga del mio lavoraccio. O che l'abbia fatto, ma senza capire alcunché.

Col cervello compresso fra questi due interrogativi continuo a rendermi ignaro complice di vergognosi duetti post-beckettiani. L'ultima volta che sono stato nel suo studio, ieri, per fargli firmare il primo di una serie infinita di moduli con cui la segreteria ci incasella e ci disumanizza (peggio che in un campo di sterminio), il dialogo si è svolto nei termini seguenti.

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