Mi appoggio con una mano al cancello d'entrata e stento riesco a percepire la presa sul mio braccio destro; sarà una donna, molto più giovane di me.

"Signora, si sente bene?" mi domanda.

Ho solo il tempo di scuotere il capo, prima che il buio pesto mi avvolga completamente.

Quando riapro lentamente gli occhi so di trovarmi in ospedale, so di essere distesa sul solito scomodo letto e so altrettanto bene che al mio fianco c'è mio figlio in giacca e cravatta. Ancora una volta è stato costretto ad abbandonare uno dei suoi tanti colloqui per affrettarsi a raggiungermi e per questo, ancora una volta, mi sento in colpa.

Jaxon alza di scatto il capo non appena percepisce il lamento proveniente dalle mie labbra e asciuga una lacrima, l'ennesima.
Ci fissiamo per interi secondi mentre il macchinario a cui è legata la mia vita continua a risuonare all'interno della stanza.

"Come ti senti?" domanda scioccamente, conoscendo già la risposta e abbassando lo sguardo per non dare a vedere il suo stato d'animo. È tutto inutile, sono pur sempre sua madre.

"Come una malata terminale di cancro" la butto sul ridere, come d'altronde ho sempre fatto nella vita.

Lui scuote il capo per niente divertito e questo mi fa tornare seria.

"Ce l'hai con me?" domando retoricamente.

So che è arrivato ad odiarmi a tal punto da non rivolgermi più la parola per settimane, so che non ha mai accettato veramente le mie scelte come vuole farmi credere che abbia fatto. 

"Ce l'ho con me stesso per non essere riuscito a farti cambiare idea" ammette e cala il silenzio.

Un anno fa circa, quando mi è stato diagnosticato il cancro terminale, sin dal primo momento ho rifiutato le cure. I medici, molto scettici, hanno rispettato la mia scelta ma sia Jaxon che Jazmyn hanno cercato in tutti i modi di farmi ragione, sapendo per certi che non ci sarebbero mai riusciti.

Se ve lo state chiedendo, non sono un'egoista che pensa solo a sé stessa: ho cresciuto i miei due bambini -non più tanto bambini- nel migliore dei modi, accudendoli con tanto di quell'amore e amandoli come solo una madre saprebbe fare. È arrivato però il momento per me di farmi da parte e di lasciarli liberi; di consegnare loro il mio patrimonio più grande: quello morale. La saggezza, l'aver vissuto a lungo e gli insegnamenti. Sono certa che entrambi, in un modo o nell'altro, saranno in grado di trarne dei vantaggi da questa mia esistenza e spero vivamente che in loro rimanga per sempre impressa la figura materna che non li ha mai abbandonati.

Io voglio vivere, non sopravvivere e se per farlo sono costretta a soffrire giorno e notte all'interno di queste quattro mura, allora credo che sia arrivato davvero il momento per me di completare il mio cammino e guardare dritta in faccia la morte. I capelli bianchi e le rughe sono la testimonianza che nella vita ne ho passate tante; sento di aver appreso tutto ciò che c'era da sapere, perciò nulla ora come ora potrà mettersi tra me e il mio caro destino.

"Prendi la mia borsa" gli dico e lui lo fa in un batter d'occhio, posandola successivamente di fianco alla mia figura distesa inerme sul letto. "Aprila, dentro troverai un libro. Prendilo" e detto fatto: anche se un po' scettico, prende comunque il libro e lo rigira tra le mani. 

"Che c'entra il tuo vecchio libro adesso?" domanda non capendo.

"Hai detto bene, il mio libro" commento fissando la copertina ormai rovinata con il passare degli anni. "Quello è il mio libro" ripeto e lui torna a sedersene, fissando l'oggetto cartaceo tra le sue mani.

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