Capitolo 2-Elena-

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19 Luglio a sera.

Rammentavo bene che appena mi fui svegliata e ritrovata in una casa che non era la mia,mi ero messa a urlare. Fin quando quell'uomo, lo stesso che mi aveva portato via, mi aveva raggiunto e, per così dire, confortata.

Ma quel giorno non potei non dare sfogo al mio dolore, urlai istericamente piangendo e chiedendogli di poter tornare a casa. Non mi curavo di chi fosse, o di come mi avesse trovato quella sera, piangevo di spavento e la sofferenza che pativo nel cuore nel rivedere nella mente i miei genitori era tanto insopportabile da farmi desiderare di cadere addormentata per non ridvegliarmi mai più.

Dopo di ciò non ricordavo granché di quei giorni. Erano passati in quel modo: immersa o per meglio dire sepolta, nel dolore e nella più completa confusione, chiusa in una bolla attraverso la quale non passavaniente. Stesa su quel letto con gli occhi costantemente lucidi e annacquati, opachi e privi di tutto. Ero sotto shock e non ero capace nemmeno di muovermi.

Quasi non mi accorsi che in quei giorni, sia per lo shock, sia per la mancanza di cibo, ero svenuta nuovamente.

Solo dopo avevo racimolato le forze necessarie per chiedere a quell'uomo chi fosse, ma soprattutto dei miei genitori.

23 Luglio.

Mi svegliai con un vigoroso mal di testa che mi martellava le tempie. Ero stesa su qualcosa di morbido e soffice. Mi tirai lentamente su col busto per potermi sedere, un turbinio di vertigini mi scosse, procurandomi conati di nausea. Forse avrei vomitato se solo avessi avuto qualcosa nello stomaco.

« Dovresti riposare ancora.»

Mi voltai, trovando l'uomo seduto accanto al letto che mi guardava a sua volta.
Per un solo secondo non ci fummo altro che noi due. Osservai i suoi occhi alla ricerca di qualcosa, di un messaggio. Ci scrutammo a vicenda avvolti dal silenzio, troppo sconosciuti per proferire parola ma uniti da un evento fuori dalla nostra portata. O almeno dalla mia.

Mi osservai intorno, la camera era piccola e illuminata di una luce giallognola proveniente dalla lampada posta sul comodino. Le pareti erano bianche e semplici, spoglie di qualsiasi modernizzazione o di una qualche minima decorazione, nemmeno un quadro. Dava più l'aria di essere una stanza d'ospedale.

Il lenzuolo che avevo addosso, leggero e bianco, era stato sgualcito dai miei movimenti.

« Dove siamo?»

« In casa mia, al sicuro.»

Si alzò prendendo dal comodino posto attaccato al muro dell'acqua ossigenata e dell'ovatta all'interno di una scatoletta di metallo. Avvicinò la sedia ponendola davanti a me e sedendosi nuovamente.

Lo adocchiai bene. I capelli erano leggermente arricciati sulle punte e gli sfioravano appena le spalle, possedevano lo stesso colore scuro di quelli di mio padre, gli occhi neri segnati da alcune leggere rughe a increspargli gli angoli, anche se il resto del viso non ne aveva granché. Assomigliava in modo incredibile a mio padre, in parte risultava persino inquietante. La più grande differenza che riuscii a scorgere fu nel fisico, più mantenuto e dal petto più ampio e robusto.

« Ma chi sei?»

« William» lui allungò la mano per prendere la mia, mi ritrassi istintivamente senza smettere di guardarlo. Quasi temevo che a una mia minima distrazione potesse saltarmi addosso, e per quanto ne sapevo, avrebbe potuto tranquillamente farlo.

« E perché mi conosci?» mormorai cauta. Tutto il mio essere mi urlava che niente aveva senso.

« Perché sono tuo zio, Elena.»

[IN PAUSA] Priests-Un legame sancito col sangueDove le storie prendono vita. Scoprilo ora