7. La battaglia di Thora

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L'attacco era previsto per la notte stessa, a mezzanotte: ecco il perché del viavai frenetico dell'accampamento. Il piano prevedeva tre squadre: una avrebbe attaccato le mura da est con le macchine d'assedio, tentando di superarle con le torrette, una avrebbe cercato di sfondare il portone principale e intanto la terza, la squadra più piccola, sfruttando il favore del buio e la distrazione offerta dalle altre due, avrebbe dovuto oltrepassare le mura da ovest, entrare nella cittadella e imprigionare il governatore, mentre un piccolo contingente diviso da quell'ultima squadra correva ad aprire le porte in caso non fossero ancora state abbattute.

Myrindar e Jahrien facevano parte della terza squadra. E lei era l'unica ragazza dell'intero esercito.

La ragazza passò tutto il tempo che la separava dalla sua prima battaglia senza fermarsi nemmeno un secondo. Si allenò fino quasi a stancarsi. Affilò la spada e i due pugnali. Lucidò i coltelli da lancio. Legò i capelli, che in quei due mesi le erano in parte ricresciuti, in uno chignon. Passò una fascia nera tutto intorno alla testa, coprendo tutto il viso a parte gli occhi color foschia, che sembravano ancora più grandi in mezzo a tutto quel nero. Indossò i suoi abiti, anche quelli neri, il corsetto di pelle, i pantaloni, la cintura con le armi, gli stivali morbidi e i guanti lunghi fino a sopra il gomito. Infine indossò il mantello nero, tirò su il cappuccio sul volto e si presentò al capitano appena dopo il calar del sole.

Aveva cercato di distrarsi, concentrandosi sull'imminente combattimento.

Invano. Appena vide Jahrien ridere insieme al capitano e ad altri due soldati, vestito di nero come tutti, con gli occhi brillanti e la risata contagiosa, il suo cuore perse un battito. La ragazza chiuse gli occhi, cercando di cacciare a forza l'immagine del ragazzo dalla mente. Solo quando fu nuovamente, per finta, serena, si unì agli altri della sua squadra.

E si comportò come se nulla fosse quando in realtà si sentiva morire.


***


Cominciò con una campana. Cupa, ritmica, implacabile. Squarciava il nero silenzio della notte buia come la lama argentea di una spada. Incalzava con il suo suono opprimente, rubava i respiri, svegliava da sogni e incubi nel buio. Tuono di morte e guerra, preludio di sventura.

Poi, il colpo, violentissimo, spietato, alle grandi porte di Thora, che rimbombò su tutte le pareti, attraverso la terra, raggiunse gli ultimi angoli della città, grido di dolore e rabbia.

La campana continuava a suonare.

Armature argentee destate dal cupo allarme, radunate in fretta e furia di fronte alla porta violata, mentre un altro, minaccioso colpo ne scuoteva i battenti.

Iniziarono le grida. Fiamme di torce per le strade buie, paura e ordini gridati, mentre una pioggia di frecce si abbatteva dalle mura ai nemici di sotto. Qualcuno cadde privo di vita sulla terra battuta della pianura.

Un altro colpo.

E la campana continuava a suonare.

Altre grida si sommarono alle precedenti quando le sentinelle di Thora notarono approssimarsi alle mura torri d'assedio e scale a pioli. La notte si incendiò dell'oro dei fuochi dei difensori, mentre il fumo si spandeva ovunque, e il suo odore pungente si mischiava a quello rossastro e rugginoso del sangue.

Aria di guerra.

Un'aria che Myrindar conosceva fin troppo bene. Era il ricordo di un tramonto dorato in una città bianca e sporca, mentre l'aria si riempiva di fumo e l'oro del sole diventava quello del fuoco, e due occhi neri la raccoglievano dal buio dove era sempre vissuta. Era anche il ricordo di una corsa infinita e disperata, accompagnata solo dal proprio respiro e dalle proprie lacrime che continuavano a scendere.

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