❝Forza gravitazionale❞

2.8K 246 83
                                    

un castello di carte,
e noi dentro.
sebbene la fine sia percettibile,
sebbene crollerà presto,
resisti ancora un po'.

— House Of Cards

4 ᴏ'ᴄʟᴏᴄᴋ ɴᴇɪ ᴍᴇᴅɪᴀ

Il corridoio delle dieci era silenzioso. Davanti la porta di classe potevo sentire le voci ovattate e sovrapposte che provenivano all'interno delle aule.
Mi ero appena chiusa la porta alle spalle, quando incontrai gli sguardi sfuggenti di due miei compagni che attendevano il suono della campanella. Avevamo consegnato il compito di algebra per primi e ci era stato detto di poter aspettare fuori. Avevo fatto tutto il possibile per terminare il test nel minor tempo, infatti avanzavano ancora trenta minuti alla consegna.
Con le spalle alle vetrate, Hyobin, dai liscissimi capelli nero lucente, contava mormorando quante Chesterfield le rimanevano, sfiorandole una ad una con la punta delle dita, nel pacchetto che nascondeva nelle tasche interne della giacca. Da tutt'altra parte, invece, appoggiato alla lunga fila blu degli armadietti, vi era un ragazzo alto e magro, dagli spessi occhiali rettangolari e i capelli scompigliati, immerso tra le righe di Amleto. Hyobin sorrise un po' quando, attraversando il corridoio, i nostri sguardi si incrociarono di sfuggita.
Erano passati venti minuti dall'orario stabilito e probabilmente, Taehyung, doveva essersene andato, pensai. Mi diressi comunque in fondo al corridoio, dove si apriva un piccolo atrio in penombra. Vi erano tre classi terze, un ascensore e due distributori, uno per i caffè e l'altro per le merendine. Passai davanti all'alto ragazzo che leggeva, superando gli armadietti, e svoltato l'angolo alla fine del corridoio, lo vidi.
La sua figura buia era un'ombra scura con la schiena appoggiata al muro, leggermente ricurva, il capo basso, le braccia incrociate al petto e una gamba piegata, il cui piede sporcava il muro con la suola della sua sporca converse nera. Strinsi tra le mani la sua felpa grigia e mi avvicinai a lui, vicino alla macchinetta del caffè. Sembrava essersi addormentato: la lunga frangia castana copriva tutto il suo viso mentre un fascio flebile di luce creava una striscia dorata sulla sua maglietta marrone.
Una volta davanti a lui, strusciai rumorosamente la suola della scarpa a terra e, come avevo sperato, il ragazzo sussultò, svegliandosi.
Alzò il mento e inclinò la testa, così la frangia cadde di lato scoprendo i suoi segni di guerra e i suoi occhi taglienti. Mi inchiodarono al muro con spilli d'acciaio e mi costrinsero a deglutire.
«Sei in ritardo», osservò.
«Avevo un compito», risposi.
«Un compito?»
«Di algebra.»
«Bella merda», sospirò e gettò la testa indietro, appoggiandosi alla parete. «La mia felpa?»
Allungai le braccia e gliela porsi, ma lui rimase fermo, come per farmi capire che tra i due, lui era l'unico libero di potersela prendere con calma. Mi guardava dall'alto, perforava la mia pelle come se il suo sguardo fosse una pioggia di proiettili. Gli occhi cioccolato brillavano, e aveva l'aria stanca e le violacee occhiaie di chi ha passato intere notti in bianco.
Le sue labbra semiaperte si lasciarono sfuggire un sospiro mentre si allungava per prendere la felpa. Attorno a lui volteggiava la polvere danzante nell'aria, e la mia ombra si rifletteva sulla sua larga maglia, ora al riparo dall'unico raggio di Sole che penetrava attraverso la tenda.
«Ti ringrazio per ieri, per avermela prestata», dissi distogliendo lo sguardo e fingendo di osservare le macchinette. Recitare non era il mio forte mentre ingoiare saliva mi riusciva così bene che persino i meno attenti sembravano notare il mio disagio. Lui sorrise appena.
«Hai detto qualcosa a tuo padre?» chiese infilandosi l'indumento.
«No, non ne è capitata l'occasione», scossi il capo.
«Peccato», sospirò lui. «Ci tenevo a fare buona impressione.»
«Io incomincerei dalla divisa», azzardai.
Ciò che ottenevo era un mezzo risolino e nessuna risposta, il che mi lasciava la gola secca e l'incapacità di interrompere il silenzio che susseguiva quei momenti. Non sapevo se veder nascere il sorriso sul suo volto dovesse farmi sentire stupida.
Si staccò dalla parete e infilò in spalla lo zaino moscio, che lasciò ciondolare, dopodiché si avvicinò di qualche passo e mormorò: «io vado, ti va di seguirmi?»
Mi sorpassò e istintivamente gli afferrai la manica della felpa per il bordo.
«In che senso, scusa?»
Allora si voltò e mi rivolse lo sguardo tipico di un padre che impone al figlio di smettere di giocare.
«Quanti sensi ci possono essere?», inarcò le sopracciglia.
«Il preside ti ha avvertito, c'è in gioco la tua promozione», mormorai sciogliendo la presa. «Dove vorresti andare?»
Lui sospirò.
«Parli troppo. Staremo fuori per poco e sarai in classe prima del cambio dell'ora.»
«Per andare in giardino?»
«Si, ma non è il cortile della scuola», disse con aria annoiata. «Adesso, il tempo non si ferma se rimaniamo qui a discutere. Vuoi venire o no? Si tratta solo di qualche minuto.»

Le palpebre di Hyobin fremettero nel vederlo attraversare il corridoio e dopo poco sorrise dolcemente, salutandolo con un cenno del mento.
Scendemmo le scale ed io avvertii la custode al piano di sotto che sarei uscita in cortile. Le dissi di non avvertire mio padre, che sarei rientrata prima della ricreazione e lei annuì sorridendo, ma quando Taehyung mi raggiunse il suo volto divenne cupo, esattamente come quello del ragazzo dai rettangolari occhiali.
Non ebbi paura. I graffi, i lividi e il sangue incrostato sul suo volto non mi spaventavano. Kim Taehyung poteva anche essere temuto, ma nel suo invito avevo letto solo pura spontaneità. Sarebbe uscito lo stesso, anche senza di me, non c'era nessuna ombra di malizia nel suo sguardo arreso.
Accettai di seguirlo per mio interesse. Qualcosa di lui smuoveva in me una profonda curiosità, che nel tempo sarebbe divenuta insaziabile. Ed erano forse quei molteplici tagli, l'aura di mistero che costantemente lo abbracciava, o la storia che nascondeva il suo volto, che mi trascinavano verso di lui come fosse il nucleo che irradia la più potente forza gravitazionale.

Il Sole era alto quella mattina ed io camminavo pestando la sua ombra. Rimanemmo in silenzio per una manciata di secondi, il tempo di ritrovarci immersi nel verde di un parco fiorito.
Le prime margherite, primule bianche e una cascata di petali. I ciliegi che ornavano l'enorme distesa erano rosa e bianchi e il cielo era azzurro e limpido.
Fresca era l'aria che respiravamo, io seduta sull'erba, lui sdraiato, con un braccio dietro la testa. Aveva alzato una mano in alto, aperto il palmo e coperto con essa il Sole. Osservava attraverso le dita i raggi che non riusciva a tappare e strizzava un occhio.
«Come ti chiami?» chiese.
«Park Youra.»
Rimase in silenzio, sulle labbra lessi ripetersi il mio nome.
«Kim Taehyung», disse.
«Lo so.»
«Ti hanno già detto di me?»
«No, ho solo sentito parte della conversazione in presidenza», mentii.
«Capisco», annuì. «Qual è la tua città?»
«Daegu.»
Abbassò la mano e si alzò sui gomiti.
«Intendo dire, da dove vieni?» ripeté.
Io sorrisi. «Daegu è la mia città, sono nata qui. Mi sono trasferita a Busan per... motivi familiari, e adesso mio padre ha deciso che era il momento di tornare.»
«E ha trovato lavoro come preside... perché proprio alla Sun High School?»
«Non saprei, non credo ci sia un perché. Noi vivevamo qui, la vecchia preside è andata in pensione e rimaneva un posto libero, quindi...»
Lui, guardandomi accigliato, annuì ancora e si stese di nuovo.
«Park Youra...» ripeté mentre mi scostavo i capelli dal viso. «Ogni volta che ti guardo vedo in te qualcosa di familiare. È incredibile la somiglianza che hai con mia sorella.»
Sorrisi, imbarazzata, e mi fermai a guardare laggiù dove i palazzi facevano ombra ai condomini.
«Come si chiama tua sorella?» domandai portandomi una ciocca dietro un orecchio.
Si sentivano solo le automobili e il vento tiepido tra gli imponenti alberi che sembravano voler ricoprire il cielo. Quando rispose la sua voce si spezzò nel pronunciare quel nome.
«Kim Hyuna
Mi voltai a guardarlo e il suo volto era contratto in una smorfia, come se una spina avesse punto il suo cuore. Aveva gli occhi chiusi.
«Davvero un bel nome», dissi.
Lui fece cenno di sì col capo.
«Porti i suoi lineamenti. Se adesso fosse qui ne rimarrebbe sicuramente molto sorpresa.»
«Dici davvero?»
«Se solo fosse ancora qui», ripeté e aprì gli occhi per guardarmi.
Solo in quel momento capii cosa intendesse dire. Distolsi lo sguardo, incapace di reggere il suo, e tornai a guardare la bellezza della città, adesso più triste ai miei occhi.
«A Hyuna piaceva tanto questo posto. Ci veniva sempre, perché i fiori l'ascoltavano più di noi.»
Lo immaginai scrutare il cielo, tanto azzurro e tanto infinito da dare le vertigini. Lo immaginai cercare tra le nuvole qualcosa che non riusciva a trovare, e raccolse un fiore.
«E le piacevano i sempreverdi», disse stringendo il pugno e sgretolandone i petali. «Perché anche se è inverno,
loro non cambiano.
Le persone sì.»

»

Oops! Questa immagine non segue le nostre linee guida sui contenuti. Per continuare la pubblicazione, provare a rimuoverlo o caricare un altro.
CHERRY BLOSSOM | k.thDove le storie prendono vita. Scoprilo ora