Cattive Influenze.

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Accendo il cellulare e trovo cinque messaggi e una chiamata persa.

Uno è di Sam.

"*aspettando un tuo messaggio*

Scrivimi quando puoi Pheobe."

Sorrido.

Gli altri sono tutti di Steph.

"Com'è andata il primo giorno?"

"Oggi possiamo vederci?"

"Grazie di avermi risposto al telefono"

"Chiamami Pheobe."

Mi preoccupo.

Sarà arrabbiata? O peggio sarà successo qualcosa?

Non esito a comporre il numero, ma nessuno risponde.

Provo con il numero di casa ma senza risultato.

Ora sono preoccupata davvero.

Richiamo per la decima volta e finalmente qualcuno risponde, ma non è Steph, è la madre.

"Pronto?"

"Ciao Pheobe, sono Nicole. Stephanie ha cercato a chiamarti..."

"Cosa succede?"

"Tranquilla, nulla di grave. Steph ha conosciuto un ragazzo oggi a scuola e sono usciti. Lui aveva la moto e sono finiti in un fosso, non so come sia capitato, ma entrambi stanno bene. Steph ha una gamba rotta, ma va tutto bene."

Tiro un sospiro di sollievo.

Nicole è sempre stata ottimista e felice, a volte talmente tanto da risultare ingenua.

"C'è bisogno che venga?" chiedo.

"No, stai tranquilla. Domani Stephanie non va a scuola, e le piacerebbe le tenessi un po' di compagnia."

"Credo si possa fare, ti faccio sapere ancora dopo  aver  chiesto a mia madre." Rispondo.

"Va bene e buona serata Pheobe!"

"Grazie anche a voi."

Stacco la chiamata e mi butto sul letto.

Steph si è sempre lasciata trasportare dai ragazzi, e non ne ha mai avuto uno che tenesse veramente a lei. Era già capitato che fosse scappata di casa o che avesse fatto follie per un appuntamento, ma mai nulla del genere. Di sicuro anche questo suo compagno non deve avere una buona influenza su di lei. 

 Poi mi ricordo... Sam!

Gli scrivo che domani non ci sarò a scuola e lo ringrazio del pomeriggio.

Credo di potermi rilassare ora... e invece, no!

Devo studiare algebra e fare alcuni esercizi di matematica per domani. 

Non ne ho assolutamente voglia ma non desidero prendere l'appellativo di "quella che non fa i compiti". Almeno non il primo giorno.

Faccio i compiti con fretta, ascoltando la mia canzone preferita sull' Ipod, leggo quelle cinque-sei pagine da studiare e finalmente mi stendo sul letto sospirando, esausta.

Penso, con la testa nascosta tra la miriade di cuscini, alla giornata passata con Sam e a quanto mi piaccia stare con lui. Non pensavo di poter trovare un compagno di classe cosi simpatico il primo giorno di liceo.

La porta ad un tratto si spalanca.

-Ciaoooo!- mi urla mia sorella buttandosi sulla poltrona vintage dove si era seduto questo pomeriggio Sam.

-Sai bene che voglio che bussiate, se volete entrare.- rispondo, sedendomi a terra sul tappeto di fronte al letto.

-Non so cosa tu abbia da nascondere. Io quando avrò la tua età lascerò la porta sempre aperta, in caso ci siano dei mostri, così potrò scappare più velocemente. – mi dice lei fissandosi le ginocchia, come sempre sbucciate.

-Che hai fatto sta volta?- le chiedo, rivolgendomi alla scorticatura.

-Oh, sono caduta oggi mentre giocavo a casa di Anna. Ma sai anche tu che io adoro le cicatrici! Ti ricordano tutte le cadute che hai fatto, i momenti belli o brutti, sulla tua pelle.- mi risponde lei sorridente.

-E non cambiano anche se le cose intorno sono cambiate.- rispondo, ora guardandomi la mano, più precisamente il polso dove sfoggio una cicatrice quasi impercettibile di sei anni fa. 

Bea era piccolissima, ed eravamo a casa della nonna.

Dopo la merenda con la crostata di more, scendevamo sempre per un dirupo (che più che un dirupo era una stradina in discesa ) e facevamo finta di scalarlo.

Quel dirupo ci portava sempre alla valle, la valle dei Cavalli. Veniva chiamata cosi perché lì, pascolavano dozzine di cavalli allo stato brado. Era una meraviglia.

Una volta mia sorella ed io abbiamo provato a salire su uno di quei cavalli; io facevo equitazione e quindi sapevo abbastanza cose su come comandarne uno.

Provai su un cavallo grigio. Era ormai sera e il sole stava illuminando la valle con i suoi ultimi raggi.

 Il mantello di quel cavallo splendeva in penombra e i suoi occhi brillavano di un qualcosa che non avevo mai compreso, ma che solo dopo molto tempo capii: la libertà.

Cercai di distrarlo verso un punto mentre Bea cercava di montarlo. Il cavallo era immobile, come se avesse compreso ciò che volevamo fare. Ma non finì così. Una volta salita, mia sorella riuscì a rimanere qualche secondo in equilibrio, ma poi tutto d'un tratto il cavallo si irrigidì e si drizzò sulle zampe posteriori. Così facendo scaraventò Bea da tutt'altra parte e scappò. 

Lei stava piangendo come una disperata e non riuscivo a calmarla: mi disse che la gamba era bloccata e che non riusciva a camminare. Tutti i cavalli scapparono a causa del rumore e rimase come sottofondo, tra quella quiete sovrannaturale che regnava da sempre in quella valle, il pianto sommesso di Bea.

Decisi di andare a chiamare aiuto, con fatica cercai di "scalare" più veloce che potevo la stradina, ma caddi e mi tagliai il polso sulla terra rocciosa che franava sotto di me.

Alla fine riuscii ad arrivare dalla nonna, e insieme la portammo fino all'ospedale.

Aveva una gamba rotta e la dovettero operare; ancora oggi provo il rimorso di averla fatta salire su quel cavallo, anche se poteva andare molto peggio e di questo ne sono sempre stata consapevole.

Il trillo del telefono mi riporta al presente.



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