Non so per quanto tempo io sia rimasta immobile. Fuori era buio, c'erano i fari delle auto che si riflettevano dalle finestre. La luce del lampadario della cucina mi faceva male agli occhi, anche se non ero del tutto certa di avere ancora una vista funzionante: i contorni del mio campo visivo erano deformati, vibranti, come se stessi sognando o fossi nel pieno del peggiore calo di zuccheri mai visto. Avevo le mani strette sulle ginocchia e mi sembrava di fluttuare, come se la sedia si stesse muovendo in una grossa bolla nel mare.

La mia mente era insolitamente sgombra e la prima cosa che pensai fu che avrei proprio dovuto alzarmi e andare a dormire, perché il Gitem Euronics non aspetta nessuno e proprio non volevo sorbirmi i commenti di Sophie la Stronza sulla mia "vita notturna esagitata".

Chissà se avrei dovuto dir loro di Bette. Immaginavo che sarebbe stata parecchio tempo lontana da lì, non avevo idea di quanti giorni l'avrebbero tenuta in ospedale, né di cosa avrebbe fatto dopo. Magari aveva dei parenti da cui stare per un po'. O magari avrebbe finito per riprovarci e ci sarebbe pure riuscita, ad ammazzarsi.

Mi mossi rigida come una specie di droide e andai in bagno. Mi spogliai, entrai nella vasca e tirai la tenda, aprendomi in testa un getto di acqua ghiacciata.

Rimasi accovacciata nella vasca per un po', l'acqua che continuava a rimbalzarmi sulla nuca, le ginocchia strette al petto. Fregai via tutto con una spugna orribile, abrasiva, strappandomi anche la pelle sulle gambe e su un braccio. Alla fine avevo più tagli e segni che pelle bianca, ma era giusto così. Dovevo ritornare ad essere pulita, non potevo tollerare quell'odore e quella sensazione di sporcizia.

Mi trascinai in camera, mi sedetti sullo sgabello alto, con un piede agganciai il cavalletto per avvicinarmelo e quasi ci scagliai sopra una tela. Non che volessi dipingere, dovevo proprio dormire.

Non ero io a muovermi, era qualcun altro, e sapete cosa? Mi stava bene. Mi sentivo come se nulla potesse fare la differenza. Dormire, non dormire. Mangiare, non mangiare. Dipingere o non farlo. Non aveva senso, proprio non c'era nulla che avesse senso.

Preparai i colori senza nemmeno guardare, tanto quanto mi poteva importare? Intinsi il pennello e, lo sguardo vacuo, iniziai a passare delle pennellate sulla tela. Era come se lo facessi a caso, un po' come scarabocchiare sull'elenco del telefono. Muovevo il braccio senza nemmeno guardare quello che stavo disegnando.

Solo alla fine sollevai lo sguardo, con la stessa enfasi con cui avrei fissato un quarto di bue in macelleria, ovvero con nessun interesse.

Era una stanza molto scura, di un color vinaccia tendente quasi al nero. La tempera era schizzata un po' dappertutto, quindi quell'enorme macchia non era ben definita. Era come se fosse sangue, era ovunque e aveva sporcato la mia pulitissima e perfetta tela bianca. In mezzo a tutto quel marcio c'era una macchiolina giallo limone, che se ne stava timidamente appostata come se avesse paura di disturbare.

Intinsi il pennino nella china. Mi ricordai che una volta avevo visto un film in cui una ragazza si era suicidata accendendo l'auto in garage e un tizio aveva commentato dicendo: "C'est la vie". L'avevo trovato stupido, quella non era la vita, era un incubo orribile. Avvicinai il pennino e scrissi in bella grafia "C'est la morte!". Poi firmai.

Credevo che sarei stata arrabbiata. Furiosa. Oppure che mi sarei nascosta dietro un muro di sarcasmo. O ancora che avrei telefonato piangendo a tutti coloro che fossero disposti ad ascoltarmi. Ma tutte e tre le opzioni prevedevano che io aprissi la bocca per parlare e che dovessi anche ascoltare le risposte. Io volevo solo un po' di silenzio.

Così rimasi a fissare il mio quadro senza realmente vederlo per quelle che mi parvero ore, finché la mia schiena non mi lanciò un ultimatum e il pennino non mi scivolò dalla mano inerte e assonnata, macchiando il pavimento di china. Allora mi sdraiai sotto le coperte con addosso solo i calzini.

The Art of HappinessWhere stories live. Discover now