In ospedale mi diedero un calmante piuttosto forte e rimasi afflosciata su una poltroncina in corridoio per qualche ora. La signora Caron, la donna del condominio di Bette, si offrì gentilmente di restare con me, ma ero troppo rincoglionita dal valium per dirle di sì e dopo un po' di tempo se ne andò.

Quando mi ripresi telefonai a mia madre, ma non fu come avevo pensato. Credevo che avrei avuto bisogno di conforto, invece scoprii di avere una gran voglia di fare qualcosa, una cosa qualunque, ma che fosse impegnativa e difficile in modo da distrarmi il più a lungo possibile. Così riattaccai in pochi minuti.

È strano come mi stessi di colpo rendendo conto di aver bisogno soltanto di un po' di silenzio. Non chiedevo altro, volevo solo che gli infermieri e la dottoressa che mi imbottì di valium chiudessero quelle bocche inutili. Volevo andare a casa, staccare internet e telefono e stare zitta.

Il mio maglioncino era pulito, protetto dal mio cappotto, quindi avevo solo qualche alone scuro sui jeans. Immagino che, con un viaggio in tintoria, avrei potuto salvare il mio povero, lezioso cappottino, ma la verità è che non volevo farlo. Anzi, avrei voluto dargli fuoco. Non avrei mai più avuto la forza di indossarlo in ogni caso. Per proteggermi dal freddo il signor Fabre mi aveva portato un giubbotto dall'armadio di Bette e io ci navigavo dentro, ma mi andava bene lo stesso. Finché rimasi in ospedale non ebbi nemmeno la necessità di tenerlo addosso.

Quando l'effetto del valium si esaurì del tutto mi dissero che potevo andare a casa e mi diedero il biglietto da visita di uno psicologo indipendente che aveva il suo studio lì nell'edificio.

«Vorrei prima parlare con Bette, per favore», rantolai con voce roca mentre gettavo il biglietto da visita nella carta straccia. Non avevo bisogno di uno psicologo, semmai di un buon pasticcere: prevedevo di annegare il mio dispiacere nelle meringhe.

L'infermiera davanti a me era molto carina, cicciottella e dall'aria gentile. Si vedeva lontano un chilometro che avrebbe dato via l'utero pur di non dirmi di no. Ma il dovere è il dovere.

«Mi dispiace, ma non so se è il caso», spiegò. «L'orario di visite è finito mentre dormivi sulla sedia. Se tu fossi un congiunto potresti rimanere, ma così...».

«Senta», dissi stancamente, «mi creda quando le dico che vorrei disperatamente andare a casa. Voglio farmi una doccia e starmene in pace per un po'. Ma è importante per me vederla».

Scosse il capo. «Non posso proprio farti passare, mi dispiace tanto. Ma la tua amica è in ottime mani». Mi vide esitare, così aggiunse: «Sono ore ormai che non è in pericolo di vita, da quando siete intervenuti in casa sua. Sta' tranquilla, non si muoverà da qui tanto presto e domani potrai stare con lei dalle nove alle dodici e dalle tre e mezza alle sei».

Domani. Domani avevo il cazzo di turno al Gitem. Otto orrende ore. Dove avrei trovato il tempo di stare con Bette? Scossi il capo, sospirando.

«Ok, grazie lo stesso».

«Sai come tornare a casa?».

«Sono una donna che lavora, non ho sette anni», sbottai. Mi sentii molto in colpa dopo, lei aveva solo cercato di essere materna, ma il livello di sociopatia nel mio sangue era aumentato esponenzialmente dopo la fine dell'effetto del valium.

Presi il mio cappotto da buttare, mi avvolsi nell'enorme giacca di Bette, mi trascinai fuori dall'ospedale e chiamai un taxi. Arrivai a casa nel giro di quaranta minuti.

Feci come avevo previsto: spensi il cellulare, strappai brutalmente dal muro tutti i cavi che potessero connettermi anche solo vagamente con il mondo esterno e alla fine, quando mi sedetti su una sedia, l'unico suono che sconquassava l'etere era il ticchettio dell'orologio in salotto.

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