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Camminavo sul ciglio della strada, le mani in tasca e la testa che pesava a tal punto da non riuscire nemmeno ad alzarla. Intorno a me, una città deserta inghiottita dal buio e dal gelo, persino il mio sguardo, ormai rapito dalla paura, veniva trascinato nell'oscurità più totale, insieme alla mia ombra, che procedeva a passi lenti, poco dietro il mio corpo fragile.

C'era un silenzio innaturale quella sera, quasi poetico, come se la vita e l'anima di quel posto si fermassero al mio passaggio. Sentivo gli occhi di ogni cosa puntati solo su di me. Mi sentivo a disagio, mi sentivo male e sapevo che l'unica cosa che potevo fare era respirare, continuare a camminare e respirare, lasciandomi alle spalle, passo dopo passo, mille sguardi congelati, di quella città sotto l'effetto dell'inverno.

Avevo i capelli raccolti da un fermaglio rosso, lo ricordo bene, benissimo a dire il vero, era il preferito di Mia, l'unica amica che sapeva realmente capire ogni mio stato d'animo. Mi aveva pregata di salire in auto con lei, ma non le avevo dato ascolto, solo per la costante paura di dar fastidio alle persone, ma lei non era una persona qualunque, era la mia adolescenza, la mia crescita, la spalla su cui poggiare tutti i problemi che non riuscivo a risolvere da sola. Portavo anche una vecchia felpa grigia, il colore si era sbiadito in poco tempo, ma continuavo ad indossarla con fierezza. Ricordo di aver tenuto per tutto il tempo le mani dentro quelle tasche fin troppo strette, di quei jeans neri consumati. Probabilmente il loro unico desiderio era quello di morire fra la spazzatura insieme a felpa e fermaglio.

Mi sentivo strana, passi sempre più lenti e respiro sempre più forte. Nella mia testa gridava qualcuno, qualcuno che non ero io, una voce forte e robusta, qualcuno che forse avevo visto fino a pochi minuti prima, ma di cui non ricordavo nemmeno l'aspetto. Qualcuno che volontariamente aveva lasciato dentro di me il suo respiro e un grido indelebile nella mia mente.

Fra un brivido e l'altro, persa in quella strada desolata, mi accorsi del sangue che avevo sulle scarpe, continuavo a tremare senza freni, un po' per il freddo costante, un po' per la paura, avvertivo quel forte odore di terra umida sulla pelle e le mie unghie, troppo corte e consumate erano coperte di fango. Mi fermai di colpo, accanto a me ricordo di aver notato una panchina e subito dopo, una volta alzato lo sguardo, il lampione rosso di Hellbury Street, la strada che mi avrebbe condotto a casa. Per un momento mi concentrai unicamente sul motivo che mi aveva spinto, in così poco tempo, a tornare verso casa. Ricordavo a fatica i minuti che avevano preceduto quel momento, sentivo solamente il peso delle palpebre che lentamente si chiudevano, la forza del mio corpo, che poco a poco, inesorabilmente, mi abbandonava.

Vidi casa mia anche dal punto più lontano della strada, era una piccola villetta in stile coloniale, dai colori accesi, tutti colori che personalmente detestavo, ma che in quel preciso momento, dopo tutta la debolezza che ero riuscita ad accumulare, mi sembravano le tonalità più brillanti, della casa più bella al mondo. In fondo, parecchio in fondo, forse mi piacevano pure. Sentivo il bisogno irrefrenabile di poggiare la testa sul cuscino, non prima di un lungo bagno caldo, ma la strada non era finita ancora, così come la carrellata di strani pensieri e forti dolori che sentivo dentro di me. Arrancai un passo alla volta, le mani sul petto che stringevo con forza, i capelli ormai in totale scompiglio per colpa del vento e la mia faccia, simile ad una fredda parete di marmo.

Improvvisamente, un'infinità di immagini sfocate si presentarono davanti a me, non riuscivo a capire cosa volessero dire, non sentivo altro che il rumore costante dei battiti del mio cuore, un tale frastuono che riusciva persino a coprire i rumori della strada, vedevo una persona, un uomo, vedevo il mio corpo a terra e poi più nulla, nessun'altra immagine da potermi chiarire la situazione, ero completamente sola, a pochi metri da casa, ma a chilometri e chilometri dalla verità. Che cosa mi era capitato? Che cosa avevo fatto? Domandai a me stessa tutte le volte che il mio cuore accelerava i suoi battiti. Quel sangue sulle scarpe, la terra sulle mani, il dolore, che non riuscivo più a sopportare, credimi, sognavo soltanto di abbandonare il mio corpo, di addormentarmi, per non sentire più quella voce orrenda che da troppo tempo ormai mi stava tormentando.

Vagavo come uno zombie su quella via, passai accanto a casa Brent, subito dopo aver notato quella dei Clark, infine fu il turno di quella di Amy, una vecchia signora, che in solitudine aveva deciso di passare proprio lì i suoi ultimi anni di vita. Arrivai esausta sul vialetto di casa mia, mi avvicinai alla porta con la stessa espressione di un viaggiatore disperso nel deserto in cerca di un oasi, un miraggio, un sogno raggiunto dopo una camminata infinita. Afferrai le chiavi che erano ben nascoste sotto un vaso in terracotta, incastrate dentro un piccolo foro per l'acqua e tentai per un attimo di riprendere il controllo di tutta la situazione oltre che di me stessa, anche se ero convinta di non trovare nessuno sveglio ad aspettarmi come spesso accadeva il sabato sera. Non avrei mai e poi mai desiderato che i miei genitori mi vedessero in quell'orribile stato, ma sapevo che che l'acidità di mia madre l'avrebbe comunque portata a farmi storie sul mio ritardo più che sul mio discutibile aspetto di quella notte, mio padre, invece, innamorato follemente della sua piccola e dolce figliola dai capelli rossi, avrebbe insistito fino all'indomani, pur di farsi raccontare ogni dettaglio, era il classico padre premuroso e per questo aveva tutta la stima che riuscivo a donargli.

Entrai nel silenzio più totale, richiusi immediatamente la porta alle mie spalle e filai dritta al piano di sopra senza interrompere il lungo tragitto. Portai me stessa ed il corpo stanco che mi strascinavo dietro ormai da ore dentro il bagno, tolsi ogni vestito che mi impediva la libertà e senza troppi indugi aprii il rubinetto della vasca, lasciando cadere tutta l'acqua che riusciva a contenere. Il mio sguardo era perso verso quello specchio, che fissava il mio aspetto con attenzione, mostrandomi, oltre ai più evidenti difetti, tutto lo sporco che aveva macchiato il mio viso quella sera. C'era qualcosa che non andava, qualcosa che sentivo, un dolore più mentale che fisico e quando poggiai il mio corpo nudo sul bordo gelato della vasca, abbassai gli occhi e capii realmente che cosa era successo. Non avevo fatto nulla io, non avevo ucciso nessuno, ma non mi guardavo più con gli stessi occhi, ero diversa, non più quella di prima e probabilmente non lo sarei mai più stata.

Finalmente iniziavo a ricordare qualcosa, ma c'era un solo e unico dettaglio che a caratteri cubitali si presentava prepotentemente davanti a me, togliendo ogni spazio ad altri pensieri...ero stata violentata. 

Prigioniera di una Bugia || #Wattys2016Where stories live. Discover now