Pensa un po' che sfiga, sono io

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Interludio

VI

In quell'enorme stanza affollata che era la mente della giovane Danha, l'agghiacciante visione di suo fratello a pochi centimetri dalle fauci di un leone aveva trasceso ogni altro pensiero, monopolizzando tutto lo spazio. Aveva corso come una vera lince quando aveva sentito quel grido e quel boato di applausi. Ogni cellula del suo essere si era trasformata in fiocchi di ghiaccio.

'Non è possibile', pensò.

Quando lo vide iniziò a tremare e a piangere senza rendersene conto. Non sapeva cosa fare, non poteva salvarlo.

Lo spettacolo continuò per una ventina di giri d'orologio, Nath fu infine fatto scendere da quell'impossibile altezza e posto nelle braccia di Jova, ancora tremante. Il piccolo cervello di sua sorella si mise in moto. Se Bernabé aveva bisogno di lui per convincerla a restare, voleva dire che aveva bisogno di lei più di quanto lei stessa immaginasse.

Ma perché proprio di lei?

«Eccoti, Lince.» Una voce fuoriuscì dalle quinte, gli spalti sui quali anche Danha era stata immobile con il fiato sospeso si erano ormai svuotati, nel tendone regnava un silenzio spezzato solo dai rumori del retropalco: corde che venivano arrotolate, ganci e trapezi che venivano ordinati, costumi che venivano cambiati.

Danha voltò lentamente lo sguardò verso di lui, la paura si stava trasformando in furore e i suoi occhi non riuscivano a nasconderlo.

«Uh, che paura. Rilassati, ti spiego tutto, ma pensavo di farlo davanti a una bella tazza di tè o di caffè, che ne dici?» L'umorismo di quell'uomo non faceva che peggiorare le cose.

«Sto bene dove sto», rispose Danha, il tono di voce basso, l'ira in ogni sillaba.

«Buon per te, io sono stanco e il mio culo sta diventando della stessa forma di queste panche di legno, maledettamente piatte e dure come la roccia, dunque se vuoi vedere tuo fratello e avere qualche risposta ti aspetto tra un'ora al Mastrocarro. Sarà una chiacchierata lunga e illuminante, ti consiglio di mettere qualcosa nello stomaco prima.»

Senza aspettare una risposta, o anche un più probabile pugno in faccia, il direttore del Léon si alzò aiutandosi con il suo bastone nero e diede le spalle alla ragazza tremante d'ira. Una volta uscito dal tendone, non incontrando anima viva, si recò al Mastrocarro e si sedette alla sua scrivania.

Pile di fogli lo guardavano dal basso, chiedendo una lettura, una firma o di essere quantomeno cestinate, qualsiasi cosa insomma pur di cessare quell'eterna staticità.

Lui non ci fece caso, si girò e prese dalla credenza dietro di lui la sher di vetro nero con la migliore annata di Kraken, arrivata direttamente da Porto Muerto chiusa nel reparto segreto della stiva dell'Acquavite, un nome effettivamente poco fantasioso per una nave mercantile che trasportava liquori.

Mentre sorseggiava il suo pregiato rum, i suoi pensieri cominciarono a vagare, scavando nel passato.

Essere il direttore di uno spettacolo itinerante era diventata una copertura solo qualche orbita prima, Bernabé era nato e cresciuto in una famiglia che non poteva certo definirsi benestante, ma nemmeno misera. Sua madre era la donna più amorevole di tutto l'Impero, di tutto l'universo probabilmente, ma purtroppo per lei era anche docile come un agnellino, un aspetto del suo carattere che spesso l'aveva imprigionata in una completa sottomissione al marito, un uomo al contrario spregevole e violento.

Dalla nefasta unione dei due, nacque dapprima Bernabé, che niente ereditò dalla madre, e Leyra, una bambina biondissima con due grandi occhi verdi. Leyra era tutta sua madre, crescendo prese da lei l'umiltà e la dolcezza, ma non la remissività, quella mai: era uno spirito libero, nessun giudizio altrui, nessuna critica o disprezzamento poteva incidere la sua corazza marmorea, una cosa che faceva impazzire Bernabé, ancora così insicuro di sé.

Diefbourg. La città di maschere e bugie.Hikayelerin yaşadığı yer. Şimdi keşfedin