4C - Sono la mamma di Ri-Hanna

Começar do início
                                    

Soddisfatta, lavo i denti, do un'altra spazzolata ai capelli e calzo nuovamente le scarpe prima di andare. Non metto nessuna giacca perché, a differenza di Chicago, qui le temperature sono invertite, tant'è che i mesi più freddi sono quelli estivi. Non essendoci abituata, stamattina ho messo una giacca spessa e me ne sono pentita nell'istante in cui ho raggiunto il supermercato. Ci sono ventisei gradi, una temperatura più che elevata per me che non ci sono abituata.

Una volta in garage, prendo posto in macchina e imposto il navigatore. Ci vogliono una decina di minuti in auto e ne sono grata, non mi sarei mai fatta trenta minuti di passeggiata a piedi dopo l'impresa titanica di qualche ora fa.

Svolto a sinistra su Creek Street e proseguo fino a Spring Hill. Una volta raggiunta, continuo dritto fino a Wickham Terrace e mi mantengo sulla strada. Dopo più di un chilometro e mezzo svolto a sinistra su Caxtor Street e sospiro sollevata quando noto l'imponente struttura davanti a me.

Noto un parcheggio dove mi affretto a posteggiare e recupero il pass dal sedile, passandomelo attorno al collo. Papà me lo ha lasciato domenica sera, in caso volessi fargli visita.

Sono da poco passate le due ma credo che gli farà comunque piacere mangiare, così prendo anche il piccolo portapranzo e scendo dall'auto.

Di ampia forma rettangolare, il Suncorp Stadium è un'imponente struttura moderna che cattura l'attenzione al volo. Non c'ero ancora mai venuta, questa è la primissima volta che noto quanto figo sia questo posto. Lo stadio è prevalentemente grigio metallizzato, alternato a parti color granata che richiamano le divise della squadra. Noto che ho parcheggiato nella zona posteriore quando scorgo alcuni cartelli che segnano l'uscita perciò mi godo il panorama mentre raggiungo l'entrata principale. Oltre a delle panche in marmo vi sono diverse statue raffiguranti giocatori con una palla in mano e, al di sotto, delle targhe. Magari la prossima volta penserò a dargli un'occhiata e informarmi meglio, al momento non ne ho voglia.

Finalmente riesco ad entrare e, proprio come fuori, i colori predominanti sono quelli della squadra: granata, oro e bianco. Alle pareti vi sono molteplici foto dei Broncos o dello stadio di molti anni fa. Noto subito una biglietteria e alcune persone al di fuori che stanno sistemando. La prossima partita sarà tra due giorni, quindi credo stiano preparando tutto l'occorrente.

«Signorina, lo stadio non è ancora accessibile al pubblico. Mi dispiace, ma non può stare qui.»

Mi volto in direzione di un addetto alla sicurezza e gli sorrido. «Mi scusi, sono... un'ospite del coach Spencer. So che sta allenando, ma sono stata invitata da lui.»

L'addetto alla sicurezza esamina il mio pass e vi passa sopra un aggeggio, immagino per confermare che sia autentico, poi fa un passo indietro e si ammorbidisce.

«La signorina Calista Spencer. Molto piacere. Mi spiace di essere risultato duro, ma a volte molte fan provano ad aggirare la sicurezza anche con finti pass, per questo abbiamo triplicato i controlli» spiega mentre mi fa cenno di seguirlo.

«Non c'è problema, lo capisco.» Gli rivolgo un altro sorriso.

«Bene. Da qui ha l'accesso ai corridoi che dividono le tribune dalle sale private. Suo padre è in campo, proprio là» indica un punto preciso.

Ammiro l'immensità dello stadio, guardandomi intorno. È fantastico, accidenti. I posti a sedere sono dipinti di granata e giallo, un richiamo all'oro, tutti vuoti e in attesa di essere riempiti tra due giorni esatti. Prenderò parte alla partita, ma solo perché papà me lo chiede da tutta la settimana e sono in vena di godermi grossi giocatori sudati e atletici.

In campo c'è la squadra intenta ad allenarsi con dei lanci e mio padre... be', mio padre gli sta urlando contro.

Mi diverte conoscere questo suo lato così aggressivo, è come se fosse due persone distinte e separate tra la casa e il lavoro. E, devo dirlo, sono felice di non essere nei panni di quei ragazzi.

«Al momento è impegnato con la squadra, ma può raggiungerlo, sono certo che non gli dispiacerà» continua l'addetto alla sicurezza.

«La ringrazio molto, è stato d'aiuto. Buona giornata.» Gli sorrido e mi avvio lungo il percorso. Ci metto un paio di minuti a raggiungere l'altro lato dello stadio e mi maledico per non aver cercato un'entrata dai Gate D-E visto che mi sarei risparmiata questi chilometri. Be', almeno mi godo il panorama. Nessuno nota la mia presenza, cosa di cui sono grata, perciò mi affretto a raggiungere le scale e scenderle.

Adesso la voce di mio padre è ancora più squillante e ruvida, segno che stasera tornerà con un bel mal di gola e magari la pressione alta. Dovrebbe darsi una regolata.

Supero quelli che sono i posti a sedere dei giocatori in panchina e del resto del team, attenta a non fare pasticci, poi arrivo finalmente da mio padre, poco distante da altri due uomini.

«Jameson, Ridge! Volete accarezzarlo? Magari dargli il biberon? È un ovale, signorine, afferratelo di conseguenza e non dormite!» sbraita papà.

Stringo le labbra per non ridere e raggiungo gli altri due coach.

«Non ci credo, Cali, ma che bellissima sorpresa!» esclama quello che riconosco essere Ron Finley, al suo fianco Carter Bale. Ho conosciuto i colleghi di papà la prima volta che sono venuta in Australia, siamo andati a cena insieme e ci siamo presentati. Sono tutte persone adorabili, famiglie incluse.

«Guarda come sei cresciuta!» aggiunge Carter.

Sbuffo una risata e ricambio i veloci abbracci che mi concedono. «Come stanno le vostre signore? La famiglia?»

«Tutto bene, tutto bene. David ci ha detto che resti qui con noi per un po', ne siamo lieti.» Sorride Ron.

«Già, sono venuta a rompergli un po' le scatole. Dite che se lo saluto urlerà contro pure a me o sono salva?» scherzo.

«Con te? Certo, come no. Non ti ha urlato contro nemmeno quando gli hai graffiato l'auto, pensa se lo fa adesso.» Ridacchia Carter.

«Ehi, Dave, vieni un attimo!» Lo richiama Ron.

Mio padre si volta e nel momento in cui mi vede sorride. Un attimo prima sta inveendo contro quei poveri ragazzi, quello dopo mi sta già stringendo in un abbraccio.

«Mi soffochi, pa'» bofonchio.

«Sta' zitta» ribatte, facendo ridere gli altri due uomini.

«Ehi, non sono mica una di quei ragazzoni io.»

Papà si scosta e mi accarezza la testa. «Hai ragione, sei decisamente migliore.»

«Coach, non ci presenta la sua signora?!» urla una voce alle nostre spalle.

Inorridisco al solo pensiero che possano avermi scambiata come la moglie di papà. Mio Dio, potrei essere sua figlia. E lo sono! Poi, quando mi calmo, voglio solo ridere come una matta per l'assurdità della cosa.

Papà sibila una parolaccia che riesco a sentire forte e chiaro, quindi evito di ridere e sventolo la mano nella loro direzione. «Ehilà, ragazzi, sono Calista Spencer!» esclamo con finta voce civettuola. Oh, come mi diverto.

«Cali!» sibila mio padre in tono d'avvertimento.

«Signora.»

«È un piacere.»

Una sfilza di saluti riempie lo stadio, cosa che mi fa quasi crollare a terra dalle risate. Credono davvero che sia la moglie di papà. Oddio.

«Il piacere è tutto mio» mormoro, ammirando una sfilza di ragazzi grandi quanto armadi, tutti sudati e super attraenti. Non capisco perché non mi sia informata prima sulla squadra, di sicuro avrei fatto visita a papà molto più spesso se questo fosse stato il premio.

«Calista, giuro che ti diseredo» ringhia papà.

«La mia ricchezza interiore è tutta qui, pa'» picchetto la tempia sinistra. «Vivrò felice e soddisfatta, ripensando a questo ben di Dio ogni giorno. Grazie dell'ospitalità.»

«Mi sto godendo lo spettacolo migliore della mia vita» asserisce Ron Finley.

Anche io, Ron, anche io.

𝐓𝐇𝐄 𝐓𝐑𝐘 𝐙𝐎𝐍𝐄Onde as histórias ganham vida. Descobre agora