Cᴀᴘɪᴛᴏʟᴏ 9

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Isaac credette per molto tempo che fosse la giusta punizione e sentì di aver finalmente raggiunto il fondo a diciotto anni. Si risvegliò, all'improvviso, da un sogno durato anni, nel momento in cui si rese conto che lui avrebbe voluto vivere, nel momento in cui capì che quel desiderio di farsi del male non era altro che espressione di una confusione mentale tanto radicata da faticare a vederne il nodo d'origine.

Si cercò un lavoro per sostenersi, smise di tagliarsi la pelle e smise di fumare, decise di parlare con sua madre, in uno di quei momenti dove ancora era in grado di ragionare, con le mani che gli tremavano di paura ma gli occhi che brillavano di determinazione. E da quel momento, Isaac si sentì libero di vivere.

Sua madre, spinta dalle lacrime del figlio, iniziò la terapia, la riabilitazione e smise di bere, pianse e gli chiese perdono tante di quelle volte che Isaac per un periodo iniziò anche a sognarle quelle scuse. Lui cercò di convincersi che quel coltello in tasca non sarebbe più servito, lo teneva e lo guardava come si guarda un vecchio amico, non lo biasimava così come non biasimava se stesso per essere stato debole. Isaac aveva capito che lasciarsi andare lo avrebbe portato soltanto più a fondo, capì che avrebbe smesso di respirare, che sarebbe stato cibo per pesci e riprese a nuotare, riprese a vivere.

Vinse una borsa di studio ed entrò al Campus per poter studiare quello che realmente voleva, iniziò a lavorare anche lì e nei weekend andava a trovare la madre come da promessa che si erano fatti.

Molti si sarebbero chiesti perché non decidesse di tagliarla dalla sua vita, adesso che era indipendente, perché non la odiasse dopo tutto quello che gli aveva fatto passare, dopo tutta la paura che gli aveva fatto provare. Perché non la odio? Se l'era chiesto anche Isaac e la risposta gli piombò lì in mezzo agli occhi come un pop up. Io non voglio odiarla.

Odiare qualcuno è come odiare se stessi. Chi fa del male, non fa altro che soffrire e questo basta come punizione. Odiare è bruciarsi le budella per qualcuno che non merita la tua sofferenza. Questo era quello che pensava Isaac. Lei aveva sofferto, così come aveva sofferto suo figlio e sarebbe finita lì.

Non era stato corretto sfogarsi su di lui e di questo ne avevano già ampiamente parlato, ma adesso si stava impegnando per essere migliore di quanto non fu prima. Isaac apprezzava questi suoi sforzi e glielo ripeteva in continuazione, fiero di poter vedere del colore sulle sue guance che non fosse portato dall'alcol e di poter sentire battute uscire dalle sue labbra accompagnate da grosse risate. Felice, di vederla come tanti anni prima. Voleva il meglio per lei.

Due delicati rintocchi sulla spalla lo riportarono al momento reale e il tondo viso di Denise gli illuminò lo sguardo per alcuni istanti. La musica smise di importargli.

«Cosa fai qui?», le chiese con un accenno di sorriso mentre si toglieva le cuffie per poter sentire la sua risposta.

«Lunedì devo andare ai controlli. - gli spiegò dandosi due colpetti sul petto con l'indice - Di solito mi porta Tyson in macchina, ma questa volta no. Quindi volevo vedere la strada con il pullman per non perdermi.», sorrise imbarazzata, lanciando un'occhiata all'angolo dal quale avrebbe dovuto spuntare l'autobus.

Isaac si stupì di quell'organizzazione così fuori dal suo modo di essere, ma sorrise notando il nervosismo a colorarle la voce.

«Ti accompagno io lunedì.», le disse, guardando quel suo sorriso agitato.

«Oh, te l'ha chiesto Tyson non è vero? Si sente così in colpa. - sospirò e poi tornò a guardarlo - Non preoccuparti non devi farlo per forza, posso farcela.», annuì come se stesse rassicurando se stessa invece che il ragazzo.

«Vengo con te, lunedì.», ripeté Isaac guardandola negli occhi, senza variare né il tono della voce né l'intensità dello sguardo. Stava semplicemente constatando un fatto.

𝗦𝗼𝗺𝗲𝘁𝗵𝗶𝗻𝗴 𝗡𝗲𝘄Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora