61 Benvenuti a tutti quelli come noi

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L'avete visto Biancaneve? Forse no, è roba vecchia, lo so. Ma magari il nano Dopey (Cucciolo, ndr) che indossa la vestaglia troppo grande ce lo avete presente.

Spero di sì, perché Lea dentro quell'accappatoio ci si perdeva proprio come lui. Ci inciampava ogni tre passi, e la scendeva giù per un braccio, e lei lo tirava su, ma poi le scivolava giù dall'altra parte.

Era deliziosa mentre corricchiava nel corridoio del Baker Hill, girandosi ogni mezzo secondo per incitarmi a fare in fretta, più in fretta, forza che comincia!

E forse quell' esibizione dal vivo era una delle tante farfalle che non aveva acchiappato da bambina. Poteva acchiapparla adesso e sì, era anche un po' merito mio.

«Mister Nike, sei lentissimo quando indossi solo un asciugamano! È questa la suite numero tre?»

«Sì.»

«Apri, dai!»

«È già aperta, ho dato un paio di disposizioni per la nottata mentre tu ti asciugavi i capelli.»

E si fiondò dentro, portando con sé un'ondata di eccitazione e rischiando di lasciare indietro l'accappatoio. Non si guardò nemmeno intorno, corse verso l'enorme vetrata che offriva la sua vista sulla notte scura di Londra, armeggiando con la maniglia.

«Trevor, non si apre. Perchè non si apre?»

«Calmati, la apro io se eviti di distruggerla...»

Ma Lea era agitata, eccitata, incontenibile: non la mollò proprio quella maniglia, continuò a strattonarla nel verso sbagliato finchè non appoggiai la mia mano sulla sua per bloccargliela prima che fosse troppo tardi. Non mi ascoltava neanche, quella piccola e incantevole fatina dispettosa.

«Si fa così...» Le mostrai il movimento corretto da fare ma dubitai avesse dato il banchè minimo peso alle mie istruzioni. Poi feci scorrere la porta a vetri e l'aria fredda di Londra ci investì. La mia cosina non notò le dimensioni assurde di quella terrazza, la vasca con acqua riscaldata che spandeva vapore nel cielo di ombre, il cestino di frutta sul tavolino e le due chaise longue lì accanto. Niente Champagne, perché temevo si facesse venire mal di stomaco a mescolare zuccheri, alcol e medicinali nel suo pancino che era rimasto quasi vuoto nei giorni precedenti. Corse, inciampando nell'accappatoio per la centesima volta, ad affacciarsi alla balaustra in ferro battuto della terrazza.

Il pubblico stava uscendo solo in quel momento, non particolarmente di fretta dato che ben pochi di loro avevano idea di chi fosse quel tizio pelato e tatuato che avrebbe cantato in una lingua che quasi nessuno poteva riconoscere.

«È lui! Trevor! È proprio lui!» Lea strillava come una sedicenne al concerto di Harry Styles, battendo le mani sulla balaustra che rimbombava come una dannata campana. Faceva un gran casino, ma eravamo abbastanza in alto da non attirare troppa attenzione.

«Certo, te lo avevo detto.» L'abbracciai da dietro, stringendola forte, non per sopraffare il suo entusiasmo, che avrei voluto non si spegnesse mai più, ma per partecipare a tutto il suo splendore, e lasciarmi non più corrompere, ma innalzare dal mio miracolo dai capelli rossi. E l'entusiasmo della piccola Lea non si spense, ma cambiò forma: sentii i suoi muscoli rilassarsi tra le mie braccia, la sua testolina appoggiarsi al mio petto, e il pianoforte dette il via al primo sogno che Lea vedeva realizzarsi nella sua vita. Le sue manine, troppo fredde, strinsero le mie, e io le tempestai di baci la guancia, mentre la sentivo resistere al solletico che il contatto con la barba le procurava.

«Me ne concedi un altro?» mi bisbigliò, per non sovrastare la musica che arrivava nitida e avvolgente fino al sesto piano.

«Tutti i baci che vuoi, amore mio...»

PRICELESSWhere stories live. Discover now