46 Il sesso come strumento di guarigione

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Amavo tutti i miliardi di pezzi che componevano Lea, anche se erano incasinati, anche se sembravano voler fare a pugni l'uno con l'altro.

Amavo i suoi conflitti, potevo vedere interminabili battaglie emotive attraverso il verde dei suoi occhi.

Frequentarla era come gettare le mani in un sacchetto di coriandoli e lanciarli in aria: Lea ti si infilava dappertutto, anche sotto la pelle, svolazzava nell'aria spargendo colori e allegria nonostante lei avvertisse di sé solo il suo essere disgregata, frutto di un riciclo, quel che restava di un qualcosa che era andato distrutto in parti così piccole da renderne impossibile individuarne la forma originale. Lea si sentiva proprio come i coriandoli: un qualcosa di cui godere per pochi istanti, per poi posarsi tra la polvere in attesa di essere gettata via pezzo per pezzo.

Se Lea fosse stata felice, io sarei stato più che soddisfatto di lasciarla così: scomposta e disordinata, perché tanto era spettacolare lo stesso.

Ma Lea era infelice, e io che avevo visto frammenti di gioia prendere vita sui suoi sorrisi, volevo solo tenere vivo il suo fuoco, sebbene ne amassi anche le ceneri.

E quindi ero disposto a ricostruirla, pezzo per pezzo, raccogliendo i suoi cocci minuscoli da terra, o da qualunque posto fossero finiti, e non mi sarei sbarazzato di nessuno di essi.

Qualcuno senza dubbio troverà ben più che discutibile che avessi scelto il sesso come strumento di guarigione, e forse quel qualcuno ha ragione. Le crepe della sua personalità, poi evolutesi in voragini, erano state causate proprio da quello, no? Dal sesso. Dal modo in cui il suo squisito corpicino reagiva a certi contatti, e dal modo in cui certi pezzi di merda avevano manipolato il suo disagio consapevole, facendone un'arma di sottomissione, alimentando una vergogna ingiustificata.

E io da lì avevo scelto di partire, perché sapevo che Lea mi avrebbe seguito, anche se non sapeva dove volevo portarla e, se anche l'avesse saputo, non avrebbe creduto possibile raggiungere la meta: l'accettazione di sé, il ritrovamento dell'amor proprio.

E quindi io l'avrei fatta sentire amata anche mentre mi infilavo dentro di lei. Le avrei insegnato che mi veniva naturale amarla anche mentre il suo magnifico corpo era vettore di piacere di carnale, anche mentre mi accoglieva ovunque, mentre il mio liquido seminale la scaldava da dentro, anche mentre i nostri corpi si incastravano in modi poco naturali o affatto naturali ed esplodevano in amplessi selvaggi lo stesso. Tutto questo era possibile senza sentirsi difettosi.

Almeno con me, Lea doveva sentirsi integra, perfetta.

Mi guardò poco convinta quando, dopo aver dichiarato che eravamo ancora lontani dall'aver finito, mi alzai dal letto e mi allontanai.

«Trevor?»

«Torno subito.»

L'avevo spiata a lungo in quei giorni. Lea lo sapeva, e ci si era abituata in fretta. Quella era sicuramente una cosa poco sana. Non potevo però intervenire tempestivamente su tutto: Londra mi chiamava. In bagno trovai quello che cercavo, sapevo che Lea lo usava sempre dopo la doccia.

Quando tornai in camera la trovai seduta con le ginocchia raccolte al petto, i capelli annodati a sé stessi. Sorrise, quando vide quello che tenevo in mano.

«Olio di cocco?»

Mi accomodai accanto a lei, e le posai un bacio sulla spalla. Ottenni esattamente quello che avevo sperato: un sorriso bellissimo. All'epoca non sapevo a quanti sorrisi così sarei potuto sopravvivere prima di morire d'infarto. Lea mi stava uccidendo dolcemente, e io ne ero profondamente consapevole. Ne ero anche felice, perché preferivo morire così, piuttosto che tornare a vivere nel modo in cui avevo vissuto prima di innamorarmi della mia cosina preferita.

PRICELESSWhere stories live. Discover now