Stava rivivendo il periodo peggiore della sua vita, in una copia fedele trasportata a Worcester. Me l'aveva urlato in faccia prima di andarsene dalla tavola calda, e io ero rimasto attonito. Fino a quel momento, non l'avevo realizzato.

Assecondando il suo silenzio, mi avvicinai all'angolo cottura. Sui fornelli spenti, nel pomeriggio, avevo appoggiato una teglia di muffin al cioccolato che avevo preparato per Rylee. Sapevo che li amava, e avevo sperato che tornasse a casa per riposarsi e trovarli lì, come una sorpresa. Come una scusa. Ma non lo fece, e i dolcetti rimasero lì.

Quindi ne afferrai uno. Strinsi la carta liscia del pirottino tra le dita e compii qualche misero passo per avvicinarmi a lei. Una volta giunto, lo adagiai sulla superficie del tavolo, davanti al suo capo chino.

«Li ho fatti per te, oggi pomeriggio» le spiegai. Mantenevo basso il tono della voce, non volendo infastidirla più di quanto io non ne fossi già stato in grado. «Mangia qualcosa, Lee» la implorai. «Non ti reggi in piedi».

Giocherellò con il bordo della carta colorata, staccandola dalla pasta soffice del muffin e facendo cadere qualche briciola sul tavolo. Di malavoglia, ne prelevò un pezzetto e se lo infilò in bocca, iniziando a sbocconcellare un minimo. Erano bocconi piccoli, i suoi, ma almeno quegli zuccheri le avrebbero conferito un po' di sostentamento.

Quando mi fui assicurato del fatto che stesse mangiando, le regalai un'altra attenzione.

«Vado a riempirti la vasca», le dissi. «Così puoi rilassarti un pochino».

Non mi rispose. Continuò a fissare il vuoto, piluccando tra le briciole del dolcetto e nutrendosi con la lentezza di un uccellino indifeso. Le mie attenzioni, quella volta benevole, le scivolavano addosso come se lei ne fosse stata del tutto immune.

Senza avvilirmi, camminai verso il bagno del nostro appartamento e accesi la luce. Era sempre stata una stanza piccola e spoglia, scarna, dotata del minimo indispensabile, e la vasca era addossata alla parete piastrellata. Non era certo delle dimensioni di una piscina, né tantomeno della stessa bellezza, con la ceramica sbeccata e segnata dagli anni.

Mi inginocchiai davanti a essa e occlusi lo scarico, poi aprii il getto d'acqua. Limpida, iniziò a scorrere e a infrangersi sul fondo, abbastanza calda da generare alcune volute di vapore che appannarono le lenti dei miei occhiali. Vi aggiunsi il sapone, che liberò nell'aria un dolce profumo. In quei giorni aveva piovuto spesso, l'aria all'esterno era più fresca e un bagno caldo non avrebbe che giovato alle condizioni di Rylee.

Nell'attesa, rimasi seduto sul pavimento, con un gomito puntellato sul bordo della vasca e il capo sorretto da quest'ultimo. Stavo pensando proprio a lei, al modo in cui mi ero rivelato una persona orribile, comandato dalla gelosia e da un senso di iperprotettività. La cosa peggiore era che, dopo ogni litigio, comprendevo sempre di più la realtà dei fatti: la mia non era un'infatuazione, bensì un attaccamento morboso che avevo sviluppato nei suoi confronti. L'abitudine di vederla sola, senza alcun legame sentimentale, a ricordare il suo unico amore. E, così facendo, non avevo contemplato la felicità che Blake le stava trasmettendo.

L'avevo fatta soffrire per niente, per una stupida paura del cambiamento.

Fu proprio lei a fare capolino, addentrandosi nel bagno sulle gambe tremanti. Le si serravano le palpebre dalla stanchezza, ma cercò di rimanere vigile. Sospirai e distolsi lo sguardo, chinandomi in avanti per chiudere il getto d'acqua. La vasca era ormai piena, pronta ad accoglierla tra la schiuma.

Lei si avvicinò ancora un po', con la suola delle scarpe logore che pestava la ceramica immacolata delle piastrelle, e io mi affrettai ad alzarmi.

Ignaro di cosa dire, pronunciai un mero: «Vado di là, così puoi stare tran–»

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