Capitolo 8

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Rylee

«Non vorrei dare l'impressione di non fidarmi di te, ma io sento odore di bruciato, dolcezza» disse Lewis.

Seduto sul divano del salotto comunicante con il cucinino, parlava a voce alta per farsi sentire. Aveva i piedi appoggiati sul tavolino da caffè, le caviglie incrociate e una birra in mano. Le ciocche bionde e spettinate gli ricadevano sugli occhi, appoggiandosi alla montatura sottile degli occhiali a goccia. Intorno a lui, regnava il soqquadro: buste di patatine lasciate aperte, bibite gassate bevute a metà e cuscini sparsi anche sul pavimento.

Come concordato la sera precedente, quel giorno eravamo rimasti a casa. Lui era stanco – il che era comprensibile, considerato che gestiva l'intero locale – e un po' di riposo in sana compagnia gli faceva bene. Io cucinavo i pancake, destreggiandomi tra padella e fornelli, e lui guardava distrattamente la televisione. MTV passava Uptown Girl di Billy Joel, che io cantavo e ballavo con un cucchiaio in mano, leccandomi il dito sporco di preparato per dolci. L'afa di metà giugno era palpabile, e io passeggiavo per l'appartamento vestita solo di shorts e reggiseno.

«È tutto sotto controllo, chef» ridacchiai prendendolo in giro.

Scossi la padella per staccare l'ennesimo pancake ormai dorato dalla sua superficie e lo appoggiai su un piatto insieme agli altri, in una pila disordinata e fumante. Li contai uno per uno: ammontavano a una decina. Piccoli cerchi di pasta morbida, zuccherati all'eccesso, che io e Lewis avremmo dovuto condividere. Spensi il fornello e con una mano afferrai il piatto. Anche fuori dal luogo di lavoro mi sembrò, per un attimo, di essere rintanata nella cucina del Kenmore.

Canticchiando altri versi della canzone, mi appoggiai allo stipite della porta e portai un braccio in alto, sfiorando l'infisso con la mano libera in un finto gesto sensuale. «La cameriera e cuoca più sexy di tutta Worcester ha preparato la merenda migliore dell'anno, Christopher».

«Odio Christopher», ribatté con un sorriso divertito sul volto.

«Sir Lewis», mi corressi.

«Sei l'unica persona che non rischia di essere insultata quando usa il mio secondo nome, però».

Avvicinatami a lui, lasciai il piatto sul tavolino da caffè e mi sedetti sul divano, stringendo le ginocchia al petto. Feci spallucce. «A me piace».

Avvolse le mie spalle con un braccio e mi strinse a sé. Nella mano dove teneva la birra, ora, reggeva il telecomando e faceva zapping fra i canali alla ricerca di una trasmissione interessante. Eravamo soliti a ridere dei programmi spazzatura, ma, durante quel pomeriggio di inizio estate, niente catturò la nostra attenzione. Mi chinai in avanti per afferrare un pancake con le dita e gli diedi qualche morso accoccolandomi a Lewis, mentre il ventilatore da soffitto rinfrescava appena l'aria soffocante.

«Sai...» esordii dopo qualche minuto. «Stavo pensando di andare a Brownsville, un giorno di questi». Diedi un morso al pancake, ormai quasi finito. «Vorrei passare dai miei genitori e poi... al cimitero». Deglutii la saliva in preda al nervosismo, perché non mettevo piede in quel luogo da quando avevo lasciato New York.

Lewis voltò il capo per guardarmi. «Sei sicura?» La premura nella sua voce mi scaturì un brivido.

Vivere senza Dom aveva fatto nascere in me una paura immensa di non poter ricevere più affetto, come se morendo, lui, si fosse portato via una delle mie facoltà primarie: quella di amare. La mia necessità di dare e ricevere amore, in qualsiasi sua forma, era ormai seppellita sotto terra al suo fianco. Non ero così distaccata dall'affetto da odiare ogni persona intorno a me, ma convivevo con l'onnipresente terrore di perdere coloro che mi volevano bene.

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