«Rylee», mormorò sorpresa. «Non credevo che venissi».

Espresse il suo attonimento chinandosi verso il cestello, per raccogliere la barretta al cioccolato acquistata.

No, non sarei dovuta venire. Aveva ragione. I miei piani per quella sera erano di lavorare, concludere il turno e andare a casa, dopo due giornate protratte all'infinito. Ma la discussione avuta con Lewis, che aveva lasciato delle parole che ancora mi bruciavano in gola, mi aveva costretta ad andare in qualsiasi posto dove non avrei potuto trovarlo. Considerato che a lui non importava niente di Blake, quale luogo migliore dell'ospedale?

«Ci sono stati degli imprevisti», fui vaga. Mi tastai le tasche della gonnellina, ma nessun oggetto entrò in contatto con i miei palmi all'infuori delle chiavi dell'auto. Avendo cambiato uniforme, non avevo con me né il mio indispensabile pacchetto di sigarette, né un paio di spiccioli da spendere. «Merda» imprecai sottovoce, lasciandomi cadere con la fronte sul vetro freddo dell'apparecchio. Il mio fiato caldo si infranse sulla superficie e creò una nuvoletta di condensa. Ero sfinita. Se socchiudevo le palpebre, sentivo il sonno salire e annebbiarmi.

«Hai bisogno di qualche moneta?» mi domandò Lydia, gentile, controllando le tasche minuscole della gonna morbida. I piccoli cerchi tintinnarono, quando li chiuse in un pugno saldo per porgermeli. «Tieni, prendi ciò che vuoi».

Aprii bocca per dirle che non ce n'era il bisogno, ma ripensai alla mia migliore amica. Non sapevo in quale parte di quell'edificio si fosse rifugiata per isolarsi e combattere da sola contro quell'incubo, e la mia presenza era il minimo che io potessi donarle.

«Grazie» esalai, quindi, in risposta, afferrando i nichelini. Non persi tempo a inserirli nella fessura, ma sprecai minuti preziosi a fissare l'interno del distributore con sguardo vacuo. La fiacchezza era troppa persino per concentrarmi sulle piccolezze. «Volevo prendere qualcosa per Ava», informai la donna al mio fianco. «Lei... Lei è ancora qui, vero?»

Mi accinsi a premere dei pulsanti senza pensare alla mia scelta, che ricadde per istinto su una barretta energetica simile a quella di Lydia. Cadde nel cestello producendo un tonfo, ma prima di afferrarla selezionai anche la bottiglietta d'acqua. Le raccolsi entrambe, prima di scoccare un'altra occhiata a Lydia, che mi aveva lasciata priva di risposta.

Accanto a me, lei vacillò. Non sembrava pronta a replicare, come se le avessi chiesto di svelarmi un arcano inconfessabile, e non fece altro che prodursi in un sospiro sommesso.

Da quell'esalazione, però, uscirono solo tedio e agitazione. Dolore e tribolazione. Io non ne conoscevo la ragione, e ciò bastò a preoccuparmi talmente tanto da sentire il sangue raggelarsi nelle vene.

«L-Lydia...» mormorai, con una morsa di panico che mi artigliava lo stomaco in subbuglio. Fui attaccata da un altro principio di nausea. Quella fu la prima volta che la chiamai per nome, come se avessi racimolato un'immensa confidenza con lei in soli due giorni, ma non mi focalizzai sulla mia scarsa formalità. Imperterrita, continuai: «Lydia, dov'è Ava?»

Lei deglutì, lo notai dal movimento che le scosse il pomo d'Adamo poco pronunciato. Chinò il capo in avanti e chiuse le palpebre; si mise a stiracchiarsi le dita, per dissipare la tensione che le intorpidiva i muscoli, e rialzò la testa solo quando appurò di essere pronta a parlarmi.

Non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso. Qualsiasi gesto lei compisse, la mia voglia di ottenere delle spiegazioni al suo silenzio aumentava e mi divorava le viscere.

L'attenzione di Lydia, poi, puntò a una cinquina di sedie addossate alla parete del corridoio. La plastica dura riluceva sotto le luci al neon, e lei la fissò fin quando non decise di recarvisi. A passo lento, la seguii.

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