41 La mia bambina non si tocca

En başından başla
                                    

«Ci sto lavorando, bambina.»

«Cerca di non farti uccidere nel frattempo.»

E con la sua fronte appoggiata alla mia, portammo a termine il nostro ballo pregno di promesse che terminò troppo presto, talmente presto che fu doloroso e inaccettabile.

Il sorriso morì così in fretta che non ebbi il tempo di conservarne il ricordo sulla bocca.

I Green Day si dissolsero nell'aria leggermente frizzante di quella notte di fine settembre: avrei voluto poter fare lo stesso.

Trevor mi strinse tra le sue braccia e mi abbandonai per un po' al suo amore malato che chissà, forse, poteva salvare una parte di me che avevo data per spacciata, sebbene ben sapessi di poter salvare da sola tutto il resto.

Ma sentii subito l'interferenza di un qualcosa di sbagliato e perverso intromettersi nel suo tocco, che divenne possessivo abbandonando ogni tenerezza, pescando una nuova urgenza nel gesto dell'abbraccio e modificando immediatamente ogni priorità di condivisione per sostituirla con un'aggressività che mi preoccupò.

Alzai la testa per cercare risposte nella sua espressione, ma i suoi occhi guardavano oltre me, oltre la pista nuovamente vivace e impegnata in una danza spensierata che ormai non ci riguardava più.

Mi voltai e riconobbi subito quel volto che sembrava troppo artificiale, come se indossasse una maschera che non era sua.

«Stai tranquillo. Non può fare niente.»

«Raggiungi Andrey, Lea. Ci penso io a quel coglione.»

Trevor parve restio a lasciarmi andare davvero, nonostante fosse stato lui a dirmi di allontanarmi, e sentii il tocco dei suoi palmi scivolarmi per tutta la lunghezza delle braccia, finché le mie dita rapirono le sue e lo obbligai a guardare me, e non più il nostro nuovo problema a bordo pista.

«Non nascondermi da lui. È peggio. E sono in grado di tenergli testa.»

Mi strinse una mano abbandonando l'altra, facendo la sua scelta. La meno sicura, la mia preferita.

Lo raggiungemmo e da vicino la maschera di arrogante indifferenza parve ancora meno realistica. Quell'uomo non mi faceva paura.

«Signor Alan, è venuto a vedere il modo migliore di gestire un locale come si deve?»

Mi squadrò per un secondo soltanto, liquidandomi con un silenzio maleducato, come se non valessi niente. Si rivolse a Trevor.

«Dobbiamo parlare.»

«Puoi lasciarmi un biglietto per dirmi cosa incidere sulla tua tomba.»

Lo vidi inghiottire, mentre il pulsare frenetico della sua tempia tradiva tutta la preoccupazione che cercava di seppellire lontano dagli occhi.

«Sono affari, Trevor, e sai quanto Viktor sappia essere convincente, quando vuole qualcosa.»

Calò un breve silenzio tra i due: supposi che Trevor stesse soppesando le varie possibilità.

«E tu sai quanto la cosa non abbia nessun peso nella valutazione della tua soffiata. Non me ne frega un cazzo se ti sei cagato nei pantaloni quando hai visto il pugnale di Viktor uscire dalla sua tasca e avvicinarsi alla tua giugulare.»

«Sapevo che non avrebbe infranto le regole. Era una soffiata di poca importanza.»

Trevor si voltò verso di me, e io lo guardai lasciando che la sua disinvoltura rassicurasse anche me.

«Che dici, bambina, è stata una soffiata di poca importanza?»

Mi stampai sulla faccia il sorriso più inquietante di cui ero capace, e lanciai ad Alan uno sguardo che sperai fosse il degno figlio del mio ribrezzo.

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