«Ero sveglio, infatti» mi arresi, rispondendo alla sua domanda. «Ti posso chiedere cosa ci fai qui, così presto?»

Una risata esplose dalla sua bocca, ricca di falsità come quelle che emetteva in mia presenza quando voleva sottolineare delle ovvietà. «Perché volevo vederti, amor» replicò. Piantò i piedi a terra, si alzò, fece scivolare due dita sul tavolo ligneo. Passi lenti ma decisi, si avvicinò a me e mi carezzò il profilo della mandibola. Per la tensione, un mio muscolo guizzò sotto il suo tocco. «Abbiamo un buon patto, non mi va di sprecare l'occasione». Conquistò altri centimetri di pelle diafana, nello scorrere verso le mie labbra. Le tastò, ed esse diventarono il punto principale su cui si focalizzarono le sue pupille.

L'altra mano si arrampicò fino a carezzarmi il petto, per mia fortuna coperto da una maglietta come solevo preferire, e non mi preoccupai del fatto che lei sentisse i miei polmoni gonfiarsi e sgonfiarsi celeri, a un ritmo dettato dalla tensione che si propagava in tutto il mio corpo. Muscoli, organi, arti, ossa: tutto di me trillava come mille campanelli d'allarme, sempre più assordanti a ogni millimetro di che lei si permetteva di esplorare.

«Pensavo fosse scontato il fatto che preferisco che ci vediamo quando nessuno è in casa», precisai. «Mia sorella sta dormendo, ieri ha lavorato da sola tutta la sera» continuai, come se davvero le dovessi delle spiegazioni. Ma lei era sempre stata una calamita, un magnete potente in grado di attirare anche ciò che non avrei dovuto dirle. «E poi...» mi accinsi ad aggiungere, ma venni interrotto.

«Blake, che succede–»

Capelli arruffati e canotta piena di pieghe, Rylee fece capolino, ma si bloccò nel medesimo istante in cui alzò lo sguardo. Aveva ancora una mano alzata a strofinarsi un occhio, assonnata, che poi abbassò nel rendersi conto dello spettacolo che era in atto davanti a lei. Era indubbio il fatto che fosse sveglia per andare al lavoro, poiché il turno mattutino spettava sempre a lei.

Anche Nora si accorse della sua presenza, ma non prese le giuste distanze da me; io rimasi impotente sotto il suo tocco, soggiogato dal sorriso di scherno che rivolse alla ragazza, per poi riconcentrarsi sulla mia figura.

Volli indietreggiare, ma spingendomi indietro trovai solo il mobile della cucina a impedirmelo, sul cui bordo saldai le mani. Strinsi così forte da far imbiancare le nocche, il sangue quasi smise di giungermi alle dita e i palmi si scaldarono per l'attrito. Nora, notandolo, non gettò via nemmeno quella piccola chance: puntò le mani dritte sulle mie, le falangi strette attorno al mio polso, siglando la mia prigionia e tortura più crudele, perché quest'ultima implicava anche la sua insopportabile vicinanza.

L'unica fonte di conforto fu guardare un'altra volta Rylee, cercare invano un aiuto da parte sua, ma lei mi fissava con uno strano luccichio nelle sclere e il suo viso angelico assunse i connotati di quella che io conoscevo bene come delusione. Urlai, nella mia mente. La implorai di ricordarsi che lo stavo facendo anche per lei, qualsiasi cosa fosse; tentai di rammentarle che neanche quell'estrema prossimità era voluta, che non era neanche lontanamente ricercata da me.

Nella realtà, tuttavia, tacqui. Mi limitai a chinare il capo, quasi a confermare lo stato di arrendevolezza in cui navigavo senza meta, ma al contempo fui risvegliato da un impeto e ribaltai la situazione. Ora erano i polsi di Nora a essere artigliati dai miei e la spinsi indietro, senza forza né violenza, privo dell'intenzione di farle del male. Volevo solo liberarmene, ma dalla mia bocca uscì comunque un ringhio. «Togliti», le intimai.

Il ghigno scomparì dal suo volto. Mi guardò con un misto di attonimento e seccatura, ma io non volli concentrarmi a lungo su di lei. Quindi regalai la mia attenzione a Rylee, che era ancora immobile sulla porta della mia camera da letto. L'unica differenza era che aveva iniziato a studiare Nora, chiaramente infastidita, e non perse occasione per dimostrarlo.

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