Capitolo 30 (pt. II)

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«Cristo» imprecai sottovoce, nell'accompagnare mia sorella che, mangiata dalla fitta dolente, si inginocchiò a terra. Non discostò mai le dita dal suo viso, nonostante si tinsero anch'esse di un rosso acceso. Il sangue era ormai misto alle lacrime che, per paura o atroce sofferenza, avevano preso a scorrerle sulle gote mentre respirava affannata. «Aspetta un attimo», la rassicurai. Distanziandomi da lei, poi, mi recai in fretta nell'area privata dello stand.

Raccolsi una delle bottigliette d'acqua che eravamo soliti tenere durante i turni di lavoro, e nel tornare da Ava mi sfilai la maglietta scura, l'unico modo di fermare quel flusso irrefrenabile e di tamponarle, per quanto possibile, la ferita inferta da Nora, che assisteva muta alla scena.

Mi abbassai, stappai la bottiglia e versai l'acqua fresca sulla sua pelle nella speranza che essa potesse sciacquarle il viso. Il sangue scivolò via da naso e dita, che subito coprii con la t-shirt appallottolata. Mia sorella era scossa da tremiti, forse dovuti allo spavento provato al sentire quel dolore lancinante, ma non si perse d'animo e strinse le falangi attorno al cotone, per sorreggerlo.

L'ispanica si studiò, disinvolta, le dita inanellate, tamburellando la punta del piede sul terreno con impazienza. «Vamos, Blake, non perdere tempo» mi ammonì, l'inglese accoppiato alla sua lingua madre.

Allora il mio sguardo iroso la puntò di nuovo. Ora si guardava intorno con indifferenza; aveva lasciato cadere la semiautomatica sul suolo, in mezzo agli scarsi ciuffi d'erba calpestati dalla folla del luna park, e le sue dita aleggiavano vuote nell'aria umida e densa. Sembrava annoiata, seccata dal soccorso che stavo prestando ad Ava, come se le mie attenzioni dovessero essere dedicate a lei e a nessun altro.

Quello che le stavo per dare, ahimè, era esattamente ciò che desiderava. D'altronde, quale metodo migliore per calmare il ringhio di un cane rabbioso, se non lanciargli l'osso?

Quindi lo feci: decisi di parlarle.

«Non farmi tirare in ballo quella conversazione, Nora» tentai di dire con risolutezza, senza darla vinta al timore che mi artigliava il cervello in sua presenza. Ero, per giunta, a petto nudo dinanzi a lei, con tutti i segni della sua follia in bella vista. «Qualsiasi cosa tu voglia, prendila da me e non fare del male a nessun altro». Accertatomi che Ava potesse cavarsela da sola, con la fuoriuscita del sangue ormai rallentata, mi alzai in piedi e mi misi a braccia conserte. Non era tanto per dimostrare coraggio, quanto per crearmi uno scudo. «Sono qui. Ustionami, fammi quello che vuoi, ma non toccare quelli che mi stanno intorno». Deglutii, avendole dato la possibilità di giocare con me come aveva fatto anni prima, ma la paura che lei potesse recare dolore ai miei affetti sormontava di gran lunga quella di soffrire ancora, posto alla sua mercé.

Una risata amara le uscì dalla bocca, i denti bianchissimi in contrasto con il rosso delle labbra morbide. Le pupille fuse nel veleno scuro delle iridi mi scrutarono, perlustrarono la mia pelle marchiata, e poi si spostarono per studiare il mio viso. Forse lo trovò più scavato, in seguito alla mia rovinosa dipendenza, ma non diede a vedere alcuna alterazione scaturita dal cambiamento. «Quindi immagino che non ti faccia piacere sapere che ho fatto qualche carezza alla tua Rylee» confessò con un ghigno spaventoso.

Non potevo vedere il mio colorito perdere rossore e impallidire, ma fui sicuro del fatto che stesse accadendo. Dinanzi alla verità che Nora si lasciò scappare in maniera schietta e poco ponderata, persi ogni capacità di ragionare e la mia mente fu annebbiata dalla sola preoccupazione per Rylee.

Le sue presunte carezze erano sinonimo di minacce, percosse, pugni e spargimenti di sangue. In quale ordine essi si presentassero, io non lo sapevo, perché avevo conosciuto solo una violenza in grado di violarmi e non necessariamente dolorosa. Ma in quel momento stavamo parlando della persona che, negli ultimi giorni, aveva acquisito un'importanza tale da non poterle essere indifferente.

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