6. Mi aspettavo di meglio

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Ribaltai il salotto, tra lacrime di rabbia e stanchezza. Il cellulare che vibrava, e vibrava, e vibrava. E quel numero che veniva dall'inferno e che all'inferno doveva tornare, lampeggiava senza sosta sul monitor.

Col fiatone, mi versai un bicchiere di Martini, perché in casa non avevo altro e non avevo bisogno di altro. Tenendolo in mano andai al divano, dove il cellulare ancora mormorava, soffocato dalla stoffa dei cuscini. Eppure trovavo assordante quel suono ovattato. Lo presi in mano, andai in cucina. Mi sedetti appoggiando smartphone e bicchiere davanti a me.

Arei potuto spegnerlo, semplicemente. Ma non avrebbe più smesso di vomitare notifiche, non appena lo avessi riacceso. Presi il bicchiere e ce lo frantumai sopra, in un'esplosione di vetri e plastica.

Finalmente. Fu silenzio.

Sentii una sostanza viscida e calda colarmi lungo le dita: mi ero tagliata. Come in trance salii le scale per andare in bagno. Non sentivo alcun dolore, alla mano, solo un lento pulsare nelle orecchie: feci scorrere l'acqua gelida sopra la ferita, e guardai il mio sangue scendere nello scarico. Il taglio era profondo, il sangue non si sarebbe fermato.

«Cazzo» imprecai, iniziando ad avvertire un leggero intorpidimento. Ero digiuna, con un Martini nello stomaco, una mano che sanguinava e una notte di minacce di morte sulle spalle.

Presi un asciugamano per tamponare lo squarcio che mi attraversava il palmo, consapevole che avrei dovuto guidare fino al pronto soccorso senza poter chiamare nessuno, dato che avevo distrutto il mio unico strumento di comunicazione col mondo.

Pensai che fosse una situazione spiacevole: ero poco vestita, quasi ubriaca, ferita e sola. Al pronto soccorso avrebbero pensato un sacco di cose su di me, senza avvicinarsi minimamente al degrado che mi aveva investita in realtà. Ma la situazione passò da spiacevole a pessima non appena uscii dal bagno e una mano che parve una valanga mi coprì la bocca, togliendomi il fiato.

L'uomo mi spinse con violenza contro la parete: vidi le stelle quando la testa andò a sbattere.

Impiegai qualche secondo per mettere a fuoco quel viso spigoloso, deformato in una smorfia crudele.

«Non stai rispettando le regole, stronza.» La sua voce sgraziata, appesantita da uno spaventoso accento russo, mi investì come un treno. Mi salì il panico, ma insieme al panico venne alla luce anche un insospettabile avanzo di volontà. Non mi sarei fatta torturare in casa mia. Avrei venduto cara la pelle, gli avrei reso il compito il meno piacevole possibile, avrei lottato, e non sarei stata l'unica a uscirne con le ossa rotte.

Mi divincolai e cercai di colpirlo al petto con i miei pugni che su di lui sembravano sassolini, scalciando come un gatto inferocito, mentre lui ancora mi costringeva contro il muro con una sola mano, schiacciandomi la bocca contro i denti. Sentii il sapore del sangue sulla lingua. Non sembrava nemmeno sforzarsi nel tenermi schiacciata contro la parete. Mi guardava come fossi un miserabile scarafaggio che si rifiuta di morire sotto la suola.

Avrei voluto gridare, ma ogni suono mi moriva in gola, si schiantava contro quella mano ruvida che aveva le stesse dimensioni della mia faccia. Mi staccò dal muro con uno strattone violento, senza liberarmi le labbra dalla presa, sollevandomi con un solo braccio come fanno le mamme con i bimbi capricciosi.

Lo tempestai di colpi sui fianchi, colpendolo con le braccia, scalciando a vuoto. Stavo sprecando energie che non avrei nemmeno dovuto avere, in cerca di un fuga impossibile, di una salvezza più che improbabile.

Gestendo il mio corpo imbizzarrito scese le scale, senza una sola incertezza, come se non avesse dovuto domare con un braccio solo una donna che lottava per la vita. Alla fine mi lanciò ai piedi del divano, e la mia faccia andò quasi a sbattere contro un paio di Nike bianche. Ci sputai sopra il mio sangue.

PRICELESSWhere stories live. Discover now