Sospirai, interrompendo la corrente di pensieri, ma mia sorella non se ne accorse. Metabolizzò la mia presenza e abbandonò la foto sulla scrivania, allontanandola dalla sua attenzione.

«È quasi il quattro luglio» disse all'improvviso. Un sorriso le si formò suo volto, illuminando le sue iridi verdi. «Non vedo l'ora».

Sapevo benissimo il perché di quell'affermazione. Io e Ava avevamo sempre amato quella serata di mezza estate, dove ci sentivamo davvero parte del Paese perché tutti, intorno a noi, esprimevano il loro profondo patriottismo tra musica e cori; la contentezza collettiva ci influenzava non poco. I fuochi d'artificio rossi, bianchi e blu che esplodevano sul manto scuro della notte ci ammaliavano e facevano brillare i nostri occhi curiosi di bambini ingenui.

«Dovremo lavorare» replicai, sorridendo. Sapevo che la mia puntigliosità era fonte di seccatura, per lei.

Trasferii la posta di mano in mano e la disposi secondo il solito ordine sulla scrivania: bollette da un lato, pubblicità dall'altro. Ava studiava ogni mio movimento come una videocamera di sorveglianza.

«Blake, sei sempre così...»

«Dio, no, no, no!» tuonai, interrompendola, e scagliai un pezzo di carta dritto dinanzi a me.

La busta era di un bianco immacolato e riportava soltanto l'indirizzo dell'ufficio postale e del destinatario, chiusa da un elegante sigillo nero di ceralacca. Presentava un angolo stropicciato a causa della mia forte presa.

Gli occhi di Ava si spensero, sgranati e colmi di preoccupazione. Fissava quella lettera come se avesse voluto scappare da un momento all'altro, ma, al contempo, rimaneva incollata alla poltroncina. E io, che avevo sfiorato un'altra volta quella carta maledetta, stavo iniziando a sentirmi sporco dentro. Rovinato da quel corsivo elegante, che mi seguiva fin troppo fedelmente.

La mia mano tornò sulla busta nel momento in cui Ava compì un gesto identico. Gliela strappai via dalle mani, brusco come sapevo essere solo quando ero in preda all'ansia, e lei mi guardò: un connubio di rabbia e paura sostituiva le sfumature scure delle sue iridi di smeraldo.

«Non ti metterai in mezzo, Ava» dichiarai autoritario. «Chiunque sia, sta cercando me. Non devi farti carico di problemi che non ti riguardano».

Piantando i piedi per terra, si alzò dalla poltroncina. «Lo faccio, invece, perché quando hai tenuto nascosta una situazione del genere, io sono venuta a saperlo troppo tardi. Eri già in ospedale, cazzo» si inalberò.

Assunse una posa rigida, con le mani inchiodate sui fianchi e l'attenzione puntata verso di me, che mi trafiggeva come mille coltelli intinti nel veleno. Iniziò a compiere passi lenti nella mia direzione, aggirando la scrivania per raggiungermi. Il silenzio aleggiava tra noi, interrotto solo dalla pioggia che scrosciava all'esterno.

Non le diedi una risposta. Guardai la busta di fronte a me, che stringevo tra le dita tremanti. Il sigillo emise uno schiocco sordo quando si separò dalla carta, e aprii l'aletta con una lentezza tale da farlo sembrare un movimento infinito. Sfilai la lettera contenuta al suo interno, poi la spiegai per decifrare, ancora una volta, quelle parole.

"Forse, finora, ti è sembrato un gioco.
Ma sai meglio di me che, laddove c'entrano i soldi, nessuno gioca più.
Voglio quello che mi spetta.
 S
PS: se avrai il coraggio di sottrarmi ciò che è mio di dovere,
potrei ripagarti con la stessa moneta".

Non mi accorsi di essere vittima di un vero e proprio tremore fin quando non vidi il modo in cui la carta leggera si muoveva, seguendo i movimenti del mio corpo. Ero così scosso da farmi scivolare il foglio dalle dita. Silenzioso, si appoggiò al suolo, riempiendo il quadrato di pavimento vuoto tra me e Ava.

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