I genitori di Dom non c'erano, forse rintanati in una sala d'attesa riscaldata, immune al gelo novembrino.

Il dottore mi guardò. Era a un metro da me, ma la sua voce mi giunse da lontano, come se non appartenessi più a quel mondo.

«Signorina Myers» esordì. Era freddo e distaccato. «Abbiamo fatto il possibile, ma...»

E poi il nulla.

Un silenzio stroncato dal mio urlo e dalle mie ginocchia che si frantumarono al suolo. Lacrime che scorsero senza fermarsi, che sembrarono tagliarmi la pelle.

Strillai. Cercai di strapparmi quel dolore radicato nel petto, inerpicato come una serpe velenosa.

Sognai di morire, morire, morire.

***

Urlai.

Mi dimenticai di abitare in un condominio e non realizzai il rischio di svegliare tutti gli inquilini. Oppure, semplicemente, non mi importò.

Non capii da dove tirai fuori tutta quella voce. Mi sentivo intorpidita e pietrificata, con la sola abilità di strillare e piangere. Immobile come un corpo privo di vita, solo il cuore era in grado di battere all'impazzata.

Ignorai il modo in cui finii seduta sul letto. Strinsi il lenzuolo al petto, così forte da imbiancare le nocche. Con l'altra mano cercai un appiglio, ma nulla risultò essere di conforto.

Udii i miei singhiozzi riecheggiare tra le quattro pareti della piccola camera da letto. Avevo la vista offuscata dalle lacrime e non distinguevo nulla di ciò che mi circondava, a eccezione delle luci fioche e pallide che penetravano dalle fessure della tapparella abbassata.

Poi adocchiai una macchia di colore in movimento; una persona che si avvicinò a me, svelta. Solo dopo averci pensato capii che era Lewis. Accorse respirando a fatica per la preoccupazione, e senza pormi domande mi strinse a sé.

Stavo tremando e non seppi come ricambiare. Ero fredda come il marmo, i capelli spettinati e il corpo quasi del tutto scoperto, se non per l'intimo che indossavo per dormire in estate.

Serrai le palpebre. Le lacrime scendevano copiose e inarrestabili, bagnando il lenzuolo che ancora tenevo saldamente fra le dita. Non volevo separarmene. Mi sentivo troppo nuda nei confronti del mondo, troppo vulnerabile. Io non volevo esserlo.

Ma i miei mormorii raccontavano l'esatto opposto.

«Dom...» sussurrai e la mia voce si spezzò. Lo ripetei almeno cinque volte, come se il mio vocabolario non conoscesse altro lemma che il suo nome.

Lewis mi accarezzò i capelli con movimenti lenti. Piano piano, i miei singhiozzi iniziarono a placarsi fino a fondersi con il silenzio notturno. Sentii il mio respiro sincronizzarsi con quello del mio migliore amico, che non si separò da me nemmeno per un breve istante.

«Lee...» mi cullò. Mi parlò con un tono così basso da entrarmi dentro e calmare ogni parte di me. «Sta passando, sono qui con te» tentò di rassicurarmi.

Lasciai la presa sul lenzuolo e strinsi lui con una forza tale da avere paura di soffocarlo. Non oppose resistenza. Anzi, se possibile, mi avvolse con ancora più intensità.

Mi baciò sulla testa. Si accorse, poi, che tra noi correva un filo ingrovigliato, che dalle mie orecchie scendeva fino al walkman abbandonato tra le pieghe del lenzuolo. Mi tolse gli auricolari e li accantonò lontano da noi, sospirando.

Era consapevole che mi addormentassi solo con la voce di Dom. Sapeva, però, che quell'abitudine soleva generare incubi inevitabili che lo riguardavano da vicino.

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