I

6 1 0
                                    

7 mesi prima
Se la nostra storia fosse stata un film avreste spento la TV dopo i primi cinque minuti, ve lo assicuro.
Nei film i due protagonisti si incontrano, si guardano negli occhi e il mondo si ferma: per un attimo esistono solo loro due, i loro occhi, le loro anime che si cercavano da sempre finalmente riunite in quello che tutti chiamano colpo di fulmine. Non ci ho mai creduto troppo ai film che iniziano così, a dire il vero, né tantomeno alle storie che ogni tanto qualcuno mi raccontava, ma concederò loro il beneficio del dubbio. Magari il loro grande amore è iniziato proprio così. Il mio no. La storia di come ho conosciuto l'amore della mia vita è iniziata in un modo che ha molto poco di magico e, infatti, quello che avreste visto nei primi cinque minuti del nostro film sarebbe stato me che entravo al supermercato per comprare noodles in scatola.
Avevo ventun'anni, ero uscito da quella che credevo la fase peggiore della mia vita meno di un anno prima e mi ero trasferito in quella città per tenere fede alla mia promessa di comportarmi bene. C'era qualche persona a casa, in Florida, per lo più familiari, che avrebbero potuto e voluto avermi più vicino per sostenermi e supportarmi mentre riprendevo in mano le redini della mia vita, ma quello di cui avevo davvero bisogno era spazio e tempo per capire chi fossi e cosa volessi farne del mio futuro, ora che sapevo di averne uno. Da qui la decisione di  studiare lingue all'università di Winnipeg, nel freddo della Manitoba, in Canada, lontano dal mare e da tutto ciò che mi era familiare. Essere un "bravo ragazzo" come avevo promesso a mia madre non mi riusciva poi così bene: fumavo ancora parecchio e nei weekend tendevo a bere più del dovuto, ma almeno non mi bucavo più. La dottoressa che mi aveva seguito a Jacksonville mi aveva messo in contatto con uno sponsor, grazie al quale avevo trovato un buon gruppo di supporto e, finché continuavo a partecipare agli incontri e a stare lontano dalle persone sbagliate, i rischi di una ricaduta erano ridotti ai minimi storici. Studiare lingue era un vero schifo per un ventunenne appena uscito da quattro anni in un centro di riabilitazione, con la capacità di interagire con persone normali di un liceale, ma all'epoca era sembrata l'idea migliore che potesse venirmi in mente, visto che l'unica cosa che mi andava di fare era viaggiare e che me l'ero sempre cavata con il francese, a differenza che in tutte le altre materie.
Non avevo stretto molte amicizie: la maggioranza degli studenti di lingue erano ragazze e in quel periodo avevo scarso interesse in una relazione che era ciò che a quanto pare le ragazze vanno a cercare all'università.
Così passavo le mie giornate a studiare (poco), giocare al computer e occasionalmente uscivo la sera con qualche amico o mi tenevo compagnia con qualche ragazza che più che una relazione cercava un passatempo momentaneo.
Vivevo in un mini appartamento così mini che in realtà era una stanza all'interno della casa enorme di una vecchia signora senza famiglia e con troppi soldi, con la quale condividevo la sola cucina. Non che la parola "condividere" fosse particolarmente azzeccata visto che io usavo solo il microonde e il bollitore e lei era sempre in viaggio da qualche parte. Comunque, se si esclude il tempo che impiegavo a trovare parcheggio per il motorino in quella zona così frequentata e il fatto che l'ingresso puzzava di broccoli, quel posto mi piaceva e soprattutto non dovevo condividerlo con nessun coinquilino invadente.
E così si profilava la mia anonima vita quando, quel mercoledì di marzo, lasciai il motorino davanti al supermercato e mi diressi verso l'ingresso con le cuffiette così ben incastrate nelle orecchie da eliminare qualunque suono proveniente dall'esterno.
Avevo preso i miei noodles e mi apprestavo a raggiungere la cassa quando, passando davanti allo scaffale delle uova la vidi allungarsi per prendere un pacchetto situato nel punto più alto. Vorrei poter dire che mi avvicinai per aiutarla perché volevo essere altruista o perché temevo che avrebbe buttato giù l'intero scaffale, ma la verità è che avevo notato quanto fosse carina e quella sera non avevo nulla da fare. In mia discolpa era davvero carina con quei corti capelli biondi, gli occhiali rotondi e quel vestitino rosa acceso, ed era anche estremamente buffa mentre cercava di raggiungere quel pacchetto di uova decisamente troppo in alto per il suo metro e cinquantacinque. Così mi avvicinai e presi il pacchetto di uova in questione (solo mesi dopo mi avrebbe spiegato che erano le uniche "da allevamento a terra" e perciò un pacchetto più in basso non sarebbe andato bene) e fu mentre gliele porgevo che lo sentii per la prima volta. Le nostre dita si sfiorarono appena e seppi che aveva provato esattamente la stessa cosa, l'avrei saputo anche se non avessi visto il suo viso che stava per illuminarsi in un sorriso contorcersi in una smorfia, l'avrei saputo anche se non avessi notato quel baluginio nei suoi occhi azzurri che sembrava chiedermi perché volessi farle del male.
Perché quello che sentii era un dolore paragonabile a nessun altro che avessi mai provato o che avrei mai provato in vita mia. Un dolore fisico come se ci fossimo dati non una, ma un milione di scosse in contemporanea, come se quel piccolo pezzetto delle nostre pelli che era entrato in contatto fosse improvvisamente andato a fuoco insieme a tutta la mano e il braccio e tutto il corpo e il cuore e il cervello e l'anima.
Fu solo un secondo, ma fu quel secondo che mi stravolse la vita perché capii che sarebbe successo ancora, ogni volta che l'avessi toccata, come se qualcosa nello straordinario macchinare dell'universo avesse voluto assicurarsi che mai e poi mai io e quella ragazza avremmo potuto avvicinarci abbastanza da toccarci ancora.

Nonostante tutto Where stories live. Discover now