Una volta liberatami dei pattini, indossai le mie scarpe da ginnastica logorate dagli anni.

«Hai bisogno di un passaggio a casa?» domandai ad Ava.

Mi alzai in piedi e raccolsi tutto ciò che mi apparteneva. Infilai i pattini nella loro sacca, poi afferrai il cordino che la teneva chiusa e lo strinsi saldamente fra le dita.

«No, tranquilla» declinò. «Ci vediamo quando sarai più vecchia, allora» mi congedò ridacchiando.

«Sei più vecchia di me, stronza» risi.

«Me lo rinfacci sempre».

«Io non te lo rinfaccio. Al contrario, ti regalo delle certezze».

«Vai a lavorare, altrimenti Lewis ti uccide. Lo sai che si lamenta, se non sei puntuale».

Mi lasciai andare in una risata pensando al mio migliore amico. Era più piccolo di me di due anni, ma tra di noi non insorgevano mai problemi. Era come un fratellino. Sopportava la mia goffaggine, le mie battutine e il mio onnipresente sarcasmo. Non sapevo come ne fosse in grado, ma se fossi stata più dolce, probabilmente, l'avrei abbracciato a ogni minuto del giorno.

«Ci vediamo domani?»

«A domani, Lee» mi confermò sorridendo.

A passo svelto, mi diressi all'uscita dello Skylite. In quelle calde e umide sere di inizio giugno mi sentivo fortunata a poter parcheggiare la mia auto davanti alla struttura, perché quei pochi metri sotto il sole in procinto di tramontare erano micidiali. Spalancai la portiera della macchina e appoggiai la sacca dei pattini sul sedile del passeggero, poi studiai il mio riflesso nello specchietto retrovisore. Alcune ciocche di capelli venivano sparate a destra e a manca e la mia coda alta era ormai distrutta. Decisi, quindi, di rifarla lasciando che la mia frangia mi coprisse a tratti gli occhi, e una volta finito misi in moto l'auto.

Il tragitto dalla pista alla tavola calda non era lungo e la strada, di norma, non era trafficata. Motivo per il quale impiegai meno di dieci minuti a raggiungere il mio posto di lavoro.

Mentre parcheggiavo direttamente davanti al locale, dovetti ammettere che all'esterno era vomitevole. Le pareti sembravano lamiere bianche, le finestre sporche erano intagliate senza la minima precisione e il tetto era segnato dalla forte pioggia che colpiva la zona nel periodo invernale. All'interno, perlomeno, era accogliente.

Scesi dall'auto ed entrai immediatamente. Lì dentro l'afa era insopportabile, e mi capitava spesso di asciugarmi il sudore dalla fronte mentre volavo da un tavolo all'altro.

«Sei in ritardo, Myers» puntualizzò Lewis dal retro del bancone, soffocando una risata.

«Sta' zitto!» gli urlai, dirigendomi verso il bagno.

Mi addentrai nella stanza angusta, palcoscenico di muffa e ragnatele. Mi infilai la divisa: la camicetta era succinta, stretta e fastidiosa, e la gonnellina metteva in risalto le parti del mio corpo di cui più mi vergognavo. Mi sistemai guardandomi allo specchio scheggiato appeso alla parete e uscii, tornando nella sala principale.

Lewis schiaffò sul bancone due porzioni di hamburger e patatine fritte. «Tavolo dodici, dolcezza», mi indicò.

Li afferrai e mi diressi dai clienti interessati – una coppietta tanto dolce quanto nauseante –, lasciando i piatti davanti ai loro nasi e augurandogli una buona cena indossando il mio sorriso più falso.

Dopo essermi accertata che i pochi clienti presenti non avessero bisogno di nulla, tornai al bancone e mi appoggiai su di esso con i gomiti, reggendo il capo tra le mani.

«Ti vedo irrequieta» ridacchiò il mio amico. «Un altro Axel fallito?» ipotizzò.

Alzai un dito tra noi per interromperlo. «Non si parla di sport sul luogo di lavoro».

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