Non c'è più

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La sua mano è fredda e non si muove. La stringo forte al petto sperando che il mio cuore possa rianimarla in qualche modo, ma il freddo si propaga come una grande macchia nel mio petto, insediandosi in fondo per portarmi via con sè.

Alcune lacrime le bagnano il viso candido come la neve. A contrasto, la macchia porpora al lato della testa che ha contaminato il telo che un soccorritore le ha messo sopra la testa. Le sfioro i capelli sussurrandole un debole «Resta con me».

Mi guardo le mani porpora nel silenzio impetuoso della notte. Il suo corpo è sparito, ma il suo sangue no. Lui è rimasto con me.

Almeno lui è rimasto.
Mi concentro.
Anche qualcos'altro è rimasto e mi sorride guardandomi dall'altra parte della stanza.

Il senso di colpa è lì in piedi e si fa beffa della speranza sapendo di essere lui l'ultimo a morire.

L'ultimo a non morire.
Perché lei già non c'è più.




Un forte tuono. Mi tirai seduto nel letto, spaventando anche il cane che era tornato con il muso rivolto verso l'angolo della mia camera. Mi trascinai in piedi per accendere le lucciole intorno a letto. Non mi andava di starmene al buio dopo quell'incubo. Avevo bisogno di vedere la luce una volta aperti gli occhi. Non potevo permettere che si abituassero a quell'oscurità.

Una volta a letto, il cane iniziò ad abbaiare di nuovo approfittandosi della mia pazienza. Sbuffai e mi alzai cercando di capire quale fosse il motivo per cui continuava ad abbaiare.

Mi avvicinai all'angolo che stava puntando e sentii uno spiffero che mi fece rabbrividire. Scostai la tenda per capire se avessi lasciato la finestra aperta, ma quello che vidi poco dopo segnò il sottile confine tra reale e ciò che non lo era.

Feci un passo indietro inciampando sopra al letto prima di strofinarmi gli occhi. Era soltanto un sogno, Joe per l'amor di Dio. Ma dopo la sfilza di fosfeni l'occhio si abituò alla presenza di qualcuno nell'angolo della mia stanza.

Era lì, in piedi e sembrava spaventato. Quando finalmente raggiunsi l'interruttore della luce non ci furono più dubbi. Il cane continuava ad abbaiare rivolto verso la sagoma ed io ero certo di aver preso definitivamente troppe gocce.

Quando sentii parlare quel qualcuno, il sangue mi si gelò nelle vene.

«Joe.» Disse piano alzando le mani in segno di resa. Mi allontanai ancora e a quel punto il cipiglio così caratteristico le dipinse il volto pallido e marmoreo. «Sono io.»

Era lei. O qualcuno che le somigliava. La guardai attentamente e notai come la luce la trapassasse. Notai il colore della pelle  simile ad un bianco lattiginoso e i vestiti che sembravano esser inamidati. Le labbra avevano perso il loro candore, così come le guance.

Sarebbe stata una lunga nottata.

«Non è possibile, no.» Scossi la testa cercando di rimanere razionale. «Queste cose non possono accadere.»
«Queste cose non possono accadere finché accadono e sei forzato a crederci, nolente o volente.» Non accennò a muoversi, aveva le braccia incrociate sotto al petto. Sembrava così reale.
«Sta accadendo tutto nella mia testa,» mi indicai la tempia. «Devo aver esagerato davvero, oggi.» Mormorai a me stesso.
«Niente di tutto questo, Joe. So che può sembrare strano, ma devi lasciarmi spiegare.» Fece un passo e giurai di aver sentito il freddo propagarsi intorno alla stanza. Aveva una mano alzata per rassicurarmi. «Stentavo anche io a crederci, ma credo che abbia qualcosa a che vedere con te.» Mi indicò, poi indicò se stessa.
«Con me? Tu sei-»
«Non dormi senza prendere quelle gocce, non esci più con Ed e hai rinunciato all'università. Stai buttando la tua vita.» Disse con tono severo, ma con gli occhi tristi quasi come se sapesse di esserne la causa. La guardai e quando non dissi niente, continuò. «Nemmeno io credevo ai fantasmi. Ma se uno di loro fosse entrato in camera mia, forse avrei messo in dubbio le cose in cui credo.» Addolcì lo sguardo. «Sono ancora io, ma non appartengo a questo posto. Almeno, credo di non appartenerci. Vedo tutto come avvolto da un filo di nebbia, le cose hanno un aspetto diverso e non mi sento le dita dei piedi." Si fermò un'istante. "Se appartenessi a questo posto, me le sentirei dico bene?» Sbuffò una risata, in contrasto con lo sguardo perso nel vuoto. Stava farneticando. Era una cosa che si ritrovava spesso a fare quando non sapeva darsi una spiegazione o quando era confusa e indecisa.

Le feci un cenno, prima di chiederle incerto. «P-puoi sederti?»
«Credo di sì, non lo so» Si fermò un attimo a guardarsi intorno, prima di tornare con lo sguardo su di me. "Non me l'ha mai chiesto nessuno, di sedermi intendo." Si strinse nelle spalle. "Potrei provarci, però"

Annuii e le feci spazio sul letto. Non ero del tutto pronto ad avvicinarmi, e dubito che lo sarei mai stato, ma avevo finalmente un'occasione. Lei era tornata ed era nella mia stanza. Il minimo che avrei potuto fare era chiederle scusa e in quel momento, se stesse accadendo o meno nella mia testa, non lo considerai nemmeno.

La vidi sedersi incerta, iniziò a sfiorare le lenzuola con le dita provando a stringerle e sorrise.
"Non credevo di poterlo fare." Affondò i denti nel labbro inferiore debolmente.
"Non hai mai provato a toccare niente da quando sei...qui?"
Scosse la testa. "Sono qui da relativamente poco. Da ieri sera, in effetti."
"Ieri sera?" La guardai, poi guardai Penelope e come se mi avesse letto nel pensiero, annuì.
"Gli animali hanno una sensibilità speciale per questo genere di cose."
"Può vederti?" Chiesi. Sembravo un bambino di tre anni alle prese con i primi grandi quesiti, ma non ero un bambino e quella situazione era inverosimile.

"No, credo che solo tu possa farlo." Si strinse nelle spalle e si mise a guardare la cagnolina che, irrequieta, si leccava le zampe. "Ma.." Si alzò improvvisamente avvicinandosi al cane che una volta era il suo ed allungò una mano nella sua direzione. La guardai senza dire niente, in attesa.

Sul viso le spuntò un sorriso sincero e non provò nemmeno più a coprirlo. Nel vedere Penny scodinzolare, sorrisi anche io.
L'aveva sentita. Non poteva vederla, ma poteva sentirla. Ed era già qualcosa, sempre se tutto quello non lo stessi vedendo a causa del Lexotan.
Si fermò a guardarmi.

"Credi nei fantasmi, Osborn?"
"Un po' di più rispetto a dieci minuti fa."
Non avevo altra scelta. Appurato che quella fosse proprio Gin, dovevo permetterle di parlare. Glielo dovevo, forse questo avrebbe messo a tacere il mio martellante senso di colpa.

Non potevo immaginare che l'avrebbe soltanto alimentato.

Another Ghost RomanceWhere stories live. Discover now