Lui ridacchiò, «Riguarda te.»

«Riguarda me?», ripetetti, «Mh, posso indovinarlo?»

«No, piccola», rise ancora, «Quando si avvererà te lo dirò.»

Mi accontentai, «Okay», mi diede un bacio sulla fronte.

I giorni in cui lui stava di festa, li passavamo assieme, dalla mattina alla sera. A volte andavamo a trovare i miei, ma non c'era momento che ci perdevamo, non c'era occasione che non sfruttavamo per starcene insieme.

Con le serrande chiuse e il Sole alto nel cielo, ci spogliavamo, facevamo l'amore, ed io, da quando eravamo a Roma, avevo deciso di riprendere — per il momento — quattro volte i miei ricordi.

Avevo battezzato quella macchina fotografica: macchina dei ricordi.

La prima volta che ci registrammo fu la prima notte con lui, a Roma, nel mio appartamento, nella mia camera che poi diventò la nostra. Lui non lo sapeva quando registravo, in quel modo avrei reso tutto più naturale, più intimo. Più reale.

La seconda volta fu quando gli volli fare una sorpresa dopo una giornata di lavoro stressante e lunga.

La terza volta fu quando ritornammo dal concerto di Cremonini, a tarda notte, mezzi sudici e su di giri; quella notte pure fare l'amore fu divertente, fu spensierato, fu stupido.

La quarta volta, me lo suggerì l'istinto: dovevo ricordarmi quella notte, dovevo ricordarmi che sensazioni avevo provato. E quindi registrai l'amore che facemmo al buio, tra risate e baci.

I fine settimana, invece, li passavamo come una semplice coppia.

Avevo fatto conoscere Riccardo alle mie due amiche del corso, Rebecca e Cristina con i loro rispettivi fidanzati Niccolò e Paolo, era la prima volta che lo vedevo alle prese con nuove conoscenze e mi aveva stupita come in realtà si fosse subito integrato, ci andava d'accordo, ma sapevo che nessuno avrebbe preso il posto di Angelo.

Lo chiamava ogni santissima sera. Si parlavano in un minimo di un'ora, di cosa? Non lo so, so solo che parlavano a lungo, e a me non dispiaceva affatto. Era l'unico che, probabilmente, poteva capirlo, era l'unico che riuscisse a comprendere i suoi sforzi o la sua meraviglia in una città che, per anni, era stata un punto indefinito sulla cartina della sua vita.

In una serata semplice, uguale a un'altra, ci organizzammo per andare a cenare fuori e poi bere qualcosa in un bar al Trastevere.

Più i mesi passavano e più sembravamo abituarci a quella vita. Ci andava bene. Lavoro, casa nuova, amici, cene fuori, mattine in cui mi svegliavo col profumo di caffè e serate tutte nostre tra film, cioccolata e baci dati anche senza motivo.

Riccardo aveva fatto così tanto amicizia con Niccolò e Paolo che si divertiva ad andare a giocare a calcetto nel campo del padre del primo. Inizialmente era un po' scettico, mangiato dai pregiudizi, mi aveva risposto: «Non lo so, penseranno che sia uno stupido», quando gli avevo chiesto che cosa ne pensasse.

Io avevo ridacchiato, gli avevo preso il viso tra le braccia, seduti sul divano, «Ma non è vero, amore.»

La realtà dei fatti era che Riccardo, senza volerlo, col tempo, aveva fatto della sua impossibilità di studio un'insicurezza, e temeva che quei due ragazzi nuovi potessero giudicarlo per questo. Ma io sapevo che non lo avrebbero fatto, sapevo che Riccardo non gli avrebbe dato modo di pensare una cosa del genere.

Domani sarò albaWhere stories live. Discover now