19. Le scritte sui muri rimangono in eterno

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Lui spinse la mano sulla mia guancia e mi trascinò tra le sue gambe, «Sarà una lunga notte, perciò spero tu sia pronta», mi mise il casco, allacciandomelo e senza risparmiarmi un ennesimo bacio.

«Cos'hai fatto per tutto 'sto tempo?», ridacchiai, osservandolo.

«Ho fatto l'impossibile», mi sorrise, «Tu prova ad immaginare.»

«Cosa avresti mai potuto fare di così strabiliante?»

«Non è poi così strabiliante, ma ci ho messo molto, e ci ho messo anche tanto impegno.»

Mi fece cenno di salire.

«Allora stupiscimi, Romeo», mormorai, sfiorandogli le labbra e tirandomi sulla sella con l'aiuto delle sue spalle.

Riccardo rise, girò la chiave nel quadretto e partì per le strade di Ischia. Poggiai il mento sulla sua spalla, la vitalità ischitana a scorrermi davanti agli occhi mentre il cielo si ricopriva di stelle. Il Castello Aragonese vigeva sul mare come un mostro marino, pieno di storia e mistero.

Riccardo poggiò la mano sulla pelle del mio ginocchio, io gliela presi, accarezzandogli il dorso. Le nostre dita iniziarono un gioco contro la corsa del vento, ci sfiorammo i polpastrelli come se stessimo inseguendo qualcosa, fino a che la sua mano si sfregò contro la mia, il mio palmo schiacciato dal suo e ce le stringemmo a vicenda.

Si portò la mia mano sul petto, per poi baciarne le dita. Spirai, il profumo dei suoi capelli a riempirmi le narici, il suo profilo concentrato sulla strada e il mio sorriso sulle labbra. Gli cinsi il petto con l'altro braccio, fino a premermi forte contro la sua schiena grande.

Intraprese una via stretta, dopo aver fatto un lungo viaggio; l'unica cosa a separarci dal mare era l'asfalto, l'unica cosa a separarci dal cielo era la voglia di noi che ci teneva accorati alla terra. Il caldo e il vento freddo a ghiacciarmi le dita dei piedi e delle mani. Riccardo parcheggiò il motorino, eravamo su una montagna, mi disse fossimo a Serrara Fontana, un comune alto di Ischia, tipicamente freddo.

Mi prese per mano, era gelido il suo palmo, e mi trascinò con sé. Nel silenzio della notte mi strinsi al suo braccio, leggermente infreddolita. Valicammo un tunnel di pietra e lui mi trascinò per i fianchi, incollandomi ai suoi pettorali.

«Devi chiudere gli occhi», sussurrò, curvato sul mio orecchio, con la guancia sulla mia tempia.

La sua voce fu l'unica cosa che sentii davvero.

«Addirittura?», sorrisi, poggiando la nuca al suo petto. Mi sentivo al sicuro.

«Forza», mi diede un bacio sul collo.

Sospirai, titubante, e chiusi gli occhi. Sentii i battiti del suo cuore tradotti in sussulti sulla vena del suo collo. Mi guidò lui con le braccia attorno alla mia vita.

Camminammo per qualche metro, finché non mi fermò e mi fece girare verso la mia sinistra. «Mi spaventi, lo sai?», mormorai, spezzando il silenzio cupo.

«Non è niente di che.» Rise.

«Allora, posso aprirli gli occhi?» Chiesi impaziente.

«Conta cinque secondi, e poi li apri», mi cinse più forte, come se stessimo per frantumarci in mille cocci.

Mi schiarii la voce, cominciai: «1... 2... 3... 4... e 5», sussurrai, ridacchiai quando lui sbuffò per quanto contassi piano, ad ogni numero l'ansia saliva, come se stessi per fiondarmi in un mare oscuro senza fondale.

Domani sarò albaWhere stories live. Discover now