11. Il monolocale

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Mentre sceglievo i tacchi, bussarono alla porta.

«Avanti, è aperto mamma», mormorai, facendo una giravolta osservando allo specchio il paio di tacchi che avevo scelto di mettere, «Che dici? Questi vanno bene?»

Ma, quando alzai gli occhi, lì non c'era mamma. Mi paralizzai. Riccardo era fermo sullo stipite, la spalla poggiata ad esso con noncuranza. Mi osservò con una strana espressione sul volto, mai come allora desiderai entrargli in testa e sapere cosa stesse pensando.

Schiarii la voce. «Che fai qua?»

«Non posso venirti manco a trovare? Non ti vedo in giro per casa da pranzo», mormorò, «Pensavo fossi caduta nel cesso.»

«No», dissi semplicemente, riportando gli occhi sul mio riflesso, «Mi sono fatta bella per stasera.»

Riccardo schioccò la lingua, piano, sarcastico.

«Hai deciso di mettere il mio vestito?»

«Il... che?», ripetei, stridula.

«Quello è mio, lo sai», lo indicò con il mento. «Se te lo straccia qualcun altro, fidati che non sarà mai la stessa cosa.»

«Ho davanti a me un iperdotato o un arrogante egocentrico?», alzai le sopracciglia, le braccia conserte.

«Entrambi, bambina», mormorò roco.

«Vabbè», sospirai, «È tardi. Meglio che comincio a scendere.»

Quando feci per passargli vicino e sorpassarlo, nonostante tutto il tacco alto, il suo corpo mi superava oltraggiosamente, egli bloccò l'uscita con il braccio possente, un mosaico di tatuaggi a comparirmi davanti agli occhi come un fulmine.

«Riccardo, cosa c'è?», chiesi in un sospiro, «Fammi passare.»

«Sei sicura al cento per cento che tu voglia indossare questo vestito?», chiese con tale sicurezza da farmi dubitare pure del mio nome.

«Ma che problemi ci sono?», alzai le sopracciglia, «Sbaglio o sei stato tu a dirmi espressamente che non saresti venuto?», assottigliai le palpebre.

«Ah, quindi l'hai messo per farmi un dispetto?»

Io sorrisi, falsamente. «Ti farò sapere come me lo toglierà, Riccardo, ti renderò partecipe indirettamente», gli diedi una pacca sulla spalla.

Fui a un piede fuori dalla soglia della mia camera, ma Riccardo mi afferrò per il gomito, senza neanche rendermene conto mi ritrovai con le scapole a cozzare sulla superficie della porta di legno bianco. Trattenni il respiro e annaspai mentre sentivo il suo corpo serpeggiare sul mio, a sovrastarmi, a nascondermi, a schiacciarmi.

Mi tremò il cuore in gola, mi aggrappai alla porta che si chiuse con un boato assurdo contro la mia schiena scoperta dal vestito. Improvvisamente mi resi conto di aver il respiro irregolare.

Quando alzai le palpebre, la prima cosa che vidi furono le sue labbra seducenti, sempre tirate in un sorriso bastardo, come se fosse pronto a mordermi e a zittirmi solo con una parola. Dopodiché trovai i suoi occhi, i suoi immensi e infiniti occhi marrone chiaro, una distesa di oscurità così lucente da creare un ossimoro micidiale. Mi ci sarei persa nel cercare le sue sfaccettature. Con quei occhi firmava la mia condanna, una congiura potente; scorrevano sulla mia faccia paonazza, scarlatta. Sembrò contare le mie piccole lentiggini sulle guance, mi guardò intensamente, tanto da farmi chiudere la gola e stringermi l'intestino.

Domani sarò albaWhere stories live. Discover now