3. Favori e debiti

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«È un bene che una persona vi cambi la vita?», chiesi.

«Deve valerne la pena, bambina mia», rispose mio padre.

«Come faccio a capire se ne vale la pena? È solo una persona, come posso dare così tanta importanza ad una persona sul mio futuro?»

Papà fece per rispondermi. Ma mamma lo interruppe. Sorrise. «Lo scoprirai tu, col tempo. Arriverà anche per te quell'infezione nel cuore che ti cambia il modo di guardare il mondo.»

«... perché l'amore è così inaspettato? E poi è così imprevedibile, non sai mai quando è il momento esatto in cui cominci ad amare, è sempre così impreciso...», riflettei ad alta voce.

«Ricorda, bambina mia, che se l'amore fosse stato semplice e monotono, prevedibile e preciso come la gioia, la tristezza, allora ad oggi non conosceremo tante opere o canzoni che tanto adoriamo. Prendi il Grande Gatsby!» Disse mio padre, accarezzandomi la mano.

«Dio, Daisy era così stronza, e quel povero Jay è morto sempre più solo e per colpa della sua fama indiscreta.»

«... e poi prendi le canzoni di Gino Paoli, di Venditti... di Vasco...», elencò, «O quelle di Celentano», mia mamma sorrise, nei suoi occhi non avevo mai smesso di vedere quell'amore che li legava incondizionatamente, «Non credi sarebbe stata un'immensa perdita di questo bagaglio culturale se l'amore fosse stato facile? Pensa anche alla storia, alla guerra di Troia, scoppiata per un amore proibito e funesto. Pensa alla morte di Marco Antonio e Cleopatra. Pensiamo alla cultura generale, Rose e Jack del Titanic... ci sono molti esempi così classici e così... uguali tra loro, che però, se guardati bene, sono così strappalacrime e strazianti da renderli unici e originali nel loro amore folle. Bimba mia, se l'amore fosse stato semplice, la vita dell'uomo, da oggi a millenni fa, sarebbe stata noiosa e poco speranzosa», finì mio papà.

«Pensi che per trovare l'amore bisogna essere speranzosi?»

«Sempre», mi rispose mamma. «Non pensare mai di non meritarti la speranza.»

Le sorrisi, a cuore leggero. Parlare con loro era sana terapia. Mi accucciavo tra le loro braccia, sotto i loro occhi, e rimanevamo in silenzio, un silenzio così giusto e piacevole da far paura. Si sentivano solo le cicale.

Nella nostra piccola quiete, la nostra bolla scoppiò col tintinnio di alcune chiavi. Successivamente al loro tintinnio, dal buio della cucina apparve Riccardo. Il cellulare tra le mani e una giacca di jeans addosso a coprirgli le braccia abbronzate, il viso chinato, i suoi capelli scombinati, ricci e biondo scuro, gli cadevano sugli zigomi tanto da coprirgli leggermente gli occhi.

Mio padre e mia madre guardarono là dove stavo osservando io. «Ragazzo», lo richiamò papà.

A quel punto, Riccardo si voltò, si spostò i capelli in un gesto automatico. I suoi occhi vagarono sulle nostre figure, per qualche secondo si soffermarono su di me. «Che ci fai ancora qui all'una di notte?» Si interessò papà.

Riccardo rispose dopo un po', infilando la mano nella tasca del jeans. «Ho sistemato le ultime cose in dispensa, non avevo nulla da fare», sentire la sua voce era sempre raro, non parlava quasi mai, se ne stava sempre mutacico nel suo mondo invisibile.

«E i tuoi nonni lo sanno? Non ti aspettano a casa?», chiese mia madre.

«Non vivo con loro», rispose monocorde.

«Oh, mi sembrava di aver capito di sì», disse confusa mamma, «I tuoi genitori non si preoccupano se stai fuori casa così tardi?»

Riccardo ridacchiò, ricevendo un'occhiataccia da mio padre e curiosità da mia madre. «E chi ha detto che ho dei genitori? E c'ho vent'anni, non devo mica chiedere il permesso a qualcuno per starmene in giro.»

Domani sarò albaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora