CAPITOLO 1 - BATTLÒ TATTOO

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Il ronzio della macchina per tatuaggi riempiva il bugigattolo verdastro del Battlò tattoo.
Nessuna insegna o cartello stradale né alcun tipo di pubblicità, solo una vecchia serranda grigia; lamelle di ferraglia riciclata impastate con la polvere delle strade e il piscio di chissà quanti cani.
La panoramica che quegli undici metri quadri s'erano ricavati nel cemento non poteva in alcun modo esser gradevole all'occhio, nemmeno a chi s'adibiva ad abitante notturno e s'addobbava di stracci per salpare il buio delle lunghe piccole ore. Repulsivo alla sola sensazione, invece, per chi era pregno di vita diurna: abituati, questi, a voltar lo sguardo da quel vetro opaco e da quei corpi neri d'inchiostro che ne riempivano le interiora. Procedevano a coprirsi naso e bocca come potevano; gli uomini coi dorsi delle mani pelose, le donne con sciarpe e foulard variopinti e i più anziani con i loro scialle o coi colletti alti dei montgomery. Tutto a causa dell'odore, a dir poco pungente. Infine, attenti attraversavano la strada per rifugiarsi sull'altro lato del marciapiede, dove una lunga stesa d'erbacce restituiva quantomeno una discreta dose d'ossigeno.
Non che il Battlò tattoo avesse qualche colpa nel fetore che appestava la zona.

Chloe mai s'era sognata d'assumersene la responsabilità. Lei che camminava ovunque circondata da una nuvola di profumo sempre d'una diversa fragranza. E poi non era tipa da addossarsi colpe altrui. Se ne lamentava spesso difatti, sia del rancido puzzo della spazzatura sia dell'olezzo nauseabondo che saliva dalle fognature, decisamente troppo piccole per raccogliere l'enormità dei liquami prodotti da un'intera metropoli e scaricati dalle tubature fin lì ai confini della città. Se ne lamentava pur non muovendo un dito per provare a risolvere il problema: certo era che si trattava di una battaglia troppo grande per una sola persona, seppur di facile risoluzione dopotutto, a detta di molti altri, perlopiù lontani dalla realtà della situazione con la quale andavano adornandosi i discorsi.

«Ognuno si sente meglio o peggio a seconda di dove sta. I primi, i secondi, i terzi, i quarti...ma anche i quinti!, non possono stare con gli ultimi».

Una grande rabbia mi montava nel petto quando l'ennesimo uomo o donna che sia strabuzzava gli occhi per la tracotanza d'oscenità che conviveva allo svincolo sud della Superstrada 622.
La sorpresa era tanta davanti a quell'irragionevole quantità dei più luridi vizi del paganesimo che era impossibile per loro starsene con lo sguardo basso e gli occhi spenti ad ignorare il tracollo di un'umanità che di umano ha niente o tutto. La necessità di fissare negli occhi la tragedia che la vita riserva a molti; l'incredulità nel vedere come per quelli essa sia tutt'altro che un dono e l'incapacità di comprenderne i motivi li portava ad allungare gli occhi; alcuni di loro li avrebbero strappati dalle orbite se ciò li avesse in qualche modo aiutati a capire quello che stavano guardando ma che non riuscivano a vedere.
Chloe, a giudicare dalle sue parole, non si sentiva vulnerabile alla discriminazione che sistematicamente colpiva i distretti dimenticati della città, quelli che non offrono alcuna valenza di ricordo o di menzione. Sapeva bene, lei, chi fosse e non le importava dell'etichetta che avrebbe potuto affibbiarle qualcuno.

«S'appartiene ad un mondo piuttosto che a un altro. Non è quello che ci circonda a dirci chi siamo. Puoi essere un cesso in una penthouse o in una capanna nel bosco, sempre merda riceverai».

Una metafora pungente; quasi quanto l'odore che mi solleticava le narici. Un profumo stavolta: dolce, fruttato, piacevole.

«Signorina di Ferragamo» - risponde lei quando le chiedo la scelta di oggi.

«Signorina? Ti si addice» - condisco il commento con una piccola provocazione, innocua ma efficace, sapendo quanto lei odi tutto il vezzeggiare delle lady di quartiere. Ed infatti mi punge con l'ago della macchinetta. Poi si volta insieme con lo schienale della sedia e sostituisce il panno, grondante di sangue e d'inchiostro. Questa notte sto stranamente perdendo una quantità inusuale di liquidi, nonostante le dimensioni ridotte del tatuaggio e il monocromatismo nero che ho scelto.

«Facciamo una pausa?»

«Puoi fumare anche durante, lo sai».
Lei sogghigna, trasformando l'indelebile smorfia che assumono le sue labbra in una specie di sorriso rotto. Ogni notte mi rivolge la stessa domanda velata; dovrebbe infastidirmi ma lo vedo come un segno di rispetto e professionalità, anche laddove potrebbe farne a meno. Procede con l'accendersi una Winston blu e la serra tra le labbra lasciando uno spiraglio per la fuoriuscita del fumo. S'incurva di nuovo sul mio avambraccio, già costellato di macchie nerastre dalle forme più disparate: un carosello, un ulivo, una conchiglia, una croce e tanti altri.
Fisso lo sguardo sul soffitto. La condensa s'è conquistata gran parte della finestra permettendo solo ad ombre informi e ai fari delle auto di penetrare la cortina di vetro. Nulla entra e nulla esce.

«Dimmelo se ti faccio male».

Ma di dolore non ce n'è. Sono abituato a sopportare ben altro; mali estremamente più profondi di un paio di millimetri d'ago che mi perforano qualche strato di pelle.
Il rumore della macchinetta incessante mi ricorda che un'altra storia viene disegnata sulla mia pelle. Un'altra. L'ennesima ma non l'ultima. Non ancora.
In ogni caso il derivato del Roipnol preso dopo cena mi anestetizza totalmente da qualsiasi sensazione, non solo dal dolore. Anche volendo non potrei sentirlo. La pillolina bianca con le iniziali 'AG' della casa farmaceutica incise sopra galleggia nella bile tra i filacci che tengono assieme ciò che rimane del mio fegato rendendomi apatico, nel fisico e nella mente. Non fa di certo bene, ma mi aiuta a portare a termine il mio lavoro. 

E a volte può diventare dannatamente difficile.

Le Cronache della Superstrada 622 - La Melodia della NotteWhere stories live. Discover now