Cap.2 Un gioco di sguardi

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Lui, Carl Fischer.

Era lo scapolo più ambito della città e pareva essere il nuovo cliente della locanda. Giovane e fascinoso. Si diceva nei sobborghi che da piccolo fosse stato baciato dalla luna e che per questo tra i riccioli morbidi e corvini vi fosse un ciuffo argenteo.

La sua pelle era cerea e immacolata. Le spalle larghe quanto una montagna. Era forte, alto e possente, i suoi occhi avevano fatto innamorare tutte le ragazze presenti nel locale in quel preciso istante. Uno sguardo blu profondo. Profondo e cupo come l'oceano quando diviene tempestoso. Quello sguardo era così intenso da lasciare esterrefatto anche il più duro dei commensali. Non portava baffi né barba, il suo sorriso non aveva bisogno di cornice.

Ciò che lo contraddistingueva era il suo ghigno. Un ghigno beffardo e malizioso, da persona arguta, scaltra, tipica di coloro che per emergere tra i nuovi borghesi era stato costretto a sacrificare tutto, a farsi strada con artigli e morsi nella gabbia delle tigri. Ma alla fine vi era riuscito.

Carl Fischer non era solo un bell'uomo. Era indubbiamente un uomo di successo, un ricco imprenditore alchimista che possedeva svariate industrie chimiche. Quello che accadeva all'interno di queste, era e rimaneva un mistero. C'era chi diceva si producessero vernici, chi farmaci, addirittura alcuni parlavano di armi al gas.

Alle ragazze della città ben poco importava. Loro si stavano occupando di ritoccare il trucco e di sistemare i capelli arricciati per poterlo attirare nella loro rete. Ma ahimè lui sembrava non curarsene. Io, una vagabonda troppo scura e sporca per i suoi standard, non avrei mai nemmeno sognato di poter interessare a un uomo di questo calibro, perciò feci quello che ero abituata a fare. Rivolsi le mie attenzioni al cliente successivo.

"Un Bourbon" disse una voce roca. Roca e calma. Alzai lo sguardo, e mi ritrovai a naufragare nell'oceano in tempesta dei suoi occhi. Era calmo e pacato, ma continuava a fissare nei miei occhi nocciola. E come un automa, fredda quasi come la sua voce, servii il suo drink. Ero impassibile, professionale come mi avevano insegnato a trattare certi clienti con un occhio di riguardo. Lui osservava ogni mia mossa, mi sentivo controllata e sottopressione, era come se aspettasse un mio errore da un momento all'altro. Ma ciò non accadde.

"Ecco a lei" e così dicendo gli porsi il bicchiere di Whiskey. Lui non lo prese, continuava a fissarmi, con quegli occhi vitrei da sembrare finti. E poi il suo tipico ghigno beffardo. Mi chiesi cosa vuole quest'uomo da me? Ero così brava a lasciarmi distrarre da lui. Ero come inchiodata alle assi del pavimento, non riuscivo a distogliere gli occhi dai suoi, impietrita, magnetizzata, come fulminata dalla corrente elettrica che mi percorreva il midollo.

Fortunatamente due ragazze, clienti abituali sopraggiunsero al bancone e mi permisero di riprendere il controllo del mio corpo. Sembravano conoscersi. Si comportavano da civettuole, arrossivano e sghignazzavano, si toccavano i capelli biondi e nel mentre lanciavano complimenti adulando le sue proprietà, i suoi abiti costosi, i suoi soldi. Lui impassibile sorrise. Poi il suo sguardo, quasi annoiato tornò a rivolgersi a me.

In quel momento fui eternamente grata al dottor Meyer che riuscì a tenermi occupata per dieci minuti con le sue chiacchiere e le sue convinzioni politiche.

Mi piaceva il dottor Meyer. Era un medico svizzero, un uomo di mezza età, facoltoso e dal cuore enorme. Passava ogni sera alla locanda, ordinava sempre Brandy e rimaneva fino a tardi per la mia compagnia. Era sposato ed era padre di tre meravigliosi bambini. Anni prima avevo fatto da balia ai più piccoli, era così che ci eravamo conosciuti. Presto eravamo diventati amici e quando i suoi figli crebbero e la sua famiglia non necessitò più dei miei aiuti, era lui che mi indirizzò a lavorare alla locanda, garantendomi uno stipendio e un alloggio. Io adoravo il dottor Meyer, era come un secondo padre per me. E' proprio vero che tra stranieri ci si intende.

Era mezzanotte quando spensi le luci della sala. Ognuno era tornato a casa e un altra serata alla locanda era trascorsa. Tutto era lustro e ordinato, le bottiglie vuote erano state sostituite da bottiglie piene, i soldi riposti e i tavoli lucidati. Mi avviai fuori per chiudere la porta d'ingresso quando una voce risuonò da dietro l'uscio.

"Glielo hanno detto che era meravigliosa stasera?"

Io disorientata mi girai di scatto, ma con mia sorpresa non vidi nessuno. La voce cordiale continuò: "Conoscevo sua madre, Cecilia, anche lei una donna dalla bellezza rara, ma lei se mi posso permettere, è di una beltà ancora più sofisticata".

"Chi è lei? Cosa vuole da me?" Doveva essere un cliente ubriaco, talmente ubriaco da averla scambiata per qualcun'altra. Ma sua madre si chiamava davvero Cecilia La Rosa. Era possibile che lui fosse un vecchio amico?

Lo sconosciuto uscì dall'ombra. Era un uomo vecchio, alto e massiccio. Aveva schiacciati sul naso un paio di occhiali bassi e rettangolari. Era vestito con gusto, nonostante il panciotto emanasse un forte odore di alcol. Era evidente che fosse ubriaco, talmente tanto che si era rovesciato qualche bicchiere addosso. Io ero bloccata contro al muro, non avevo possibilità di muovermi. La strada era deserta e nessuno avrebbe potuto rispondere alle mie grida di aiuto.

Si avvicinò a me, tanto da poter sentire il suo alito. Puzzava tremendamente di alcol e tabacco. Aveva una grossa voglia rosa sul viso, gli occhi rossi irritati dal fumo e la pancia gonfia mi schiacciavano. Mi sentivo soffocare, la voce mi si bloccò in gola.

Mise la sua grossa e ruvida mano sul mio fianco e l'altra la poggiò tra i due seni. Io ero inorridita, iniziai ad urlare e chiedere aiuto. Nessuno rispose.

"Da lei cosa voglio" sghignazzò. "Diciamo soltanto che ero un affezionato cliente di sua madre. Avevo un accordo con lei. Ha voluto essere pagata per poter permettere all'amata figlia Rossella un educazione, ma poi scomparve e non è mai stata in grado di restituire il favore generosamente offerto". Fece una pausa e poi continuò. "Stavo pensando l'altra sera, forse è tempo che il favore mi venga restituito. Ma da carne fresca "

E con questa affermazione strappò il corpetto della mia uniforme. L'aria gelida della sera mi correva sulla pelle. I miei seni scoperti erano turgidi. Lui a quella vista iniziò ad ansimare come un porco.

Io piangevo, il mio corpo esile schiacciato contro la parete. Piangevo e pregavo. Era un incubo che aveva preso vita era pronto ad inghiottirmi in quell'istante. La mia vista iniziò ad annebbiarsi e io presi a vacillare. Mi girava la testa e nel momento in cui iniziò a baciarmi il petto vidi tutto nero. Sentivo le labbra viscide e bramose sul mio corpo, rabbrividivo al contatto con la sua lingua e rabbrividivo ancora di più al contatto della pelle con il vento freddo che si faceva strada nel borgo.

Poi mi prese i fianchi. Mi girò di peso e mentre mi stavo preparando al peggio, con braccia e gambe bloccate da quel corpo pesante su di me, da quelle manone che mi lasciavano lividi sulla pelle, tutto a un tratto avvertii un sollievo.

Tutto a un tratto non ero più schiacciata, ero libera da quella morsa. Crollai a terra e pian piano la vista tornò. Ero intontita ma vidi l'omone a terra, e nel mentre un altro uomo, alto e longilineo lo aveva atterrato. Il vecchio non si muoveva, era a terra, disteso. Non era morto, respirava a carponi. Erano respiri pesanti, ma costanti.

Poi l'uomo, il misterioso uomo che mi aveva appena salvato, si girò. Non lo avevo riconosciuto nella penombra. Era lui. Il giovane alchimista. Il giovane Carl Fischer.

In quel momento, mezza nuda e stordita provai un tremendo senso di vergogna. cercai di coprirmi, invano. I miei vestiti erano irrecuperabili. Ero madida di sudore e mi sentivo debole. Lui si avvicinò, notò che stavo tremando e mi coprì con il suo cappotto di seta. Non avevo mai indossato qualcosa di così tanto raffinato in vita mia. La morbidezza della seta mi travolse in un caldo e confortante abbraccio. Ciò di cui avevo bisogno. Poi mi aiutò ad alzarmi. Mi accompagnò in camera. Mi medicò le ferite che mi aveva procurato la violenza di quell'uomo. Io lo osservavo zitta. Ero trasportata dalla seta e dal suo profumo che era rimasto intrappolato nel tessuto. Un profumo singolare. Un profumo di gelsomino, ma allo stesso tempo di inchiostro e naftalina. Un profumo calmante, che ti assuefà come una droga, una medicina. Ora ero calma.

Lui sempre silenzioso mi preparò un bagno caldo. Mi aiutò a vestirmi per la notte e mi accompagnò fino al capezzale. Tirò fuori una fiaschetta di metallo lavorato e mi disse solo "Bevi". Ed io: "Che cos'è?" . "Bevi". E così feci. Lo feci perché di lui sapevo che mi sarei potuta fidare.

Bevvi e mi addormentai con l'ultimo ricordo di lui che mi accarezzava i capelli umidi sul guanciale e di un suo bacio sulle mie guance rosse dal sole.

La moglie dell' alchimistaTahanan ng mga kuwento. Tumuklas ngayon