Cap. 1 Rossella La Rosa

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Berlino, 11 aprile 1934

Me lo ricordo così il nostro primo incontro.

Lavoravo in una locanda in Friedrichstadt, uno dei quartieri più frequentati della città di Berlino.

Io, Rossella, umile immigrata italiana lavoravo come cameriera giorno e notte per cercare di ricostruirmi una vita dopo la morte di mia madre.

In realtà avrei voluto ritornare in Italia. Da piccola amavo la mia isola, la Sicilia.

In famiglia eravamo in sei: mamma, papà, io, Michele, Donato e nonna Angela. Io ero la più piccola dei miei fratelli. Loro assieme a papà lavoravano in miniera ad Agrigento. La paga era misera, riuscivamo a malapena a sfamarci tutti.

Spesso io e mamma ci offrivamo di lavare i panni delle case di nobili e borghesi, per raccogliere qualcosa di più. Ho sempre ammirato quelle stoffe e quei tessuti che ogni settimana dovevo strofinare con acqua e sapone.

"Bada di stare attenta", mi ripeteva mamma. Quando svuotavo le tinozze di acqua saponata al fiume mi specchiavo nel riflesso e guardavo il mio abito grigio e lacerato, pieno di toppe e macchie. Per tutta la mia vita non mi sono mai sentita all'altezza, non mi sono mai sentita adeguata. Mai

I nostri Natali, visti dagli occhi di coloro che passavano davanti alle finestre della cucina al primo piano, potevano essere definiti pietosi o addirittura miserabili, ma in realtà eravamo felici, felici per davvero. Avevamo poco anzi nulla, spesso il cibo non bastava nemmeno per due persone, ma eravamo uniti e ci volevamo bene. A quel tempo mi sembrava di vivere in una favola, di essere la piccola stracciona che trovando l'amore si trasforma in una donna di classe. Il casale di famiglia era il mio castello e papà il mio scudiero.

La realtà vista con gli occhi di una bambina di sei anni ha un sapore diverso, ha colori diversi. La realtà quando è oggettiva si tinge spesso di grigio e la favola si dissolve.

Il giorno del mio sedicesimo compleanno accadde la disgrazia. Quella notte la miniera di Agrigento in seguito ad una esplosione crollò e rimasero uccisi papà assieme a Michele e Donato. Poco tempo dopo anche nonna Angela morì di crepacuore.

Mamma per alcuni mesi smise di parlare. Era diventata fredda, alienata. Non prestava attenzione a nulla. Ora ero io che portavo il pane in tavola. Poi un giorno, mentre stava cucendo un paio di calzini, mi disse che in Italia non ci era rimasto più nulla. Che per lei continuare a vivere nel casale di famiglia era una continua sofferenza e che aveva deciso di cercare fortuna altrove.

Eravamo entrambe addolorate e con le ferite ancora sanguinanti dal lutto. Ma quello che caratterizza le donne della famiglia La Rosa è la grande fede e la tenacia. Per questo motivo decidemmo di partire, verso nord, prima a Milano, in seguito a Berlino.

I primi mesi furono difficili. Non conoscevamo il tedesco, parlavamo a malapena l'italiano. La società verso i migranti era austera. Non ricevemmo aiuto di alcun tipo. Assieme lavoravamo alla locanda in Friedrichstadt, e lei di notte andava nei bordelli vicini per permettermi di studiare il tedesco e di inserirmi in una società che non mi voleva.

Io, capelli lunghi, folti e bruni, con pelle olivastra e occhi a mandorla scuri. Labbra rosse e carnose costantemente piegate in un sorriso, e un corpo curvilineo. Guance perennemente baciate dal sole di Sicilia, denti bianchi e un neo sulla guancia destra. I miei vestiti erano semplici e antiquati, gualciti e dalle tinte cupe.

Il mio accento marcato assieme alla mia persona non era qualcosa che passasse inosservato in mezzo ai gruppetti di tedeschi. Le meravigliose ragazze berlinesi, alte, dalla pelle diafana, vestite a puntino dalle sarte più esclusive di Berlino e dalle lunghe trecce bionde mi squadravano dall'alto in basso come se fossi uno scarafaggio e mi chiamavano con nomignoli offensivi come "mangia spaghetti", "vagabonda", "mafiosa".

Io la odiavo la Germania. Mi mancava la Sicilia, il sole, il mio mare. Volevo solo ritornare a casa, fare visita a papà ogni giorno, raccogliere i fiori più belli da portargli e ritornare alla mia vecchia vita. Sarei stata più che felice di tornare a lavare lenzuola e abiti piuttosto che vedere mamma spezzarsi giorno dopo giorno.

E invece sono rimasta, studiavo e lavoravo a testa bassa, per farla felice, per vederla sorridere di nuovo.

Mamma se n'è andata un anno fa, brutalmente schiacciata da un carro davanti alla locanda in Friedrichstadt mentre stava scaricando bottiglie di latte destinate alla colazione degli ospiti. Fino alla fine si è dedicata al lavoro e alla famiglia. La sua morte in realtà non ha significato nulla, tutte le bottiglie si sono rotte e quel giorno a colazione nessuno bevve il latte macchiato del sangue di mia madre.

Immagino che la vita così come la morte non debbano sempre significare qualcosa.

La sera dell'11 aprile ero in locanda. La locanda era un piccolo edificio in stile tirolese, costruito a fine ottocento, in legno e molto accogliente. Mi curavo sempre di annaffiare i fiori alle finestre e di lucidare le bottiglie di alcolici ogni mattina così da accogliere i clienti più agiati nella maniera più consona.

Mi piaceva lavorare lì. I camini erano sempre accesi e il profumo che usciva dalla porta della cucina placava il continuo languore del mio stomaco, quasi sempre vuoto. I cuochi erano italiani, e tra italiani spesso ci si aiutava. Dopo il turno di sera spesso mi allungavano gli avanzi che sarebbero andati ai cani dei padroni. La locanda all'epoca era la mia casa teutonica.

Quella dell'11 aprile era una sera fredda, e perciò il bar era pieno di clienti abituali e forestieri, per lo più austriaci. Stavo servendo al dottor Meyer il solito Brandy, quando i campanelli alla porta tintinnarono.

Fu molto strano perché riuscì a sentirli nonostante il frastuono di festa nella locanda. Diversamente dal solito, immersa nel caos dei festeggiamenti, un istinto mi disse di alzare lo sguardo perché dovevo vedere chi stesse per entrare. E quando lo feci il mi cuore saltò in gola.

Quel portamento, quella presenza, quella camminata era lui

La moglie dell' alchimistaOnde histórias criam vida. Descubra agora