DUL | SPICCHIO DUE

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Talvolta mormoravano insulti e talvolta proponevano tra loro bizzarri soprannomi con cui chiamarla.
Questa naturalmente li rispondeva a stesso tono imprecazioni in coreano, espressioni blasfeme che quelli non potevano conoscere.

Qualcheduno, sì, l'aveva approcciata ma solo perché, fanatico del gruppo femminile Twice, le aveva chiesto di tradurre tutta un'intera canzone coreana in giapponese.

Shin-hye odiava il k-pop.
Disprezzava assai l'industria del k-pop e disprezzava coloro che ne facevano parte.

«Non è vero.» mormorò il fratello. Franava sempre sul caratteraccio di lei.

Anche Jungkook aveva un caratteraccio.

Era un connubio perfetto tra i loro due caratteri.

Testardi, i due fratelli abitavano soli in quel relitto di un palazzone gremito di giapponesi razzisti, i quali di gente straniera non avevano fatto granché conoscenza.
Il loro vecchio palazzo si ergeva con cocciutaggine tra quella distesa di relitti, era una sorta di conglomerato che si estendeva per centinaia di metri.

A volte dietro a questi edifici impazzivano sirene.

Durante il giorno i palazzi sembrano fatti di un limaccioso manto di cenere e fuliggine per quanto orrendi fossero e durante la notte, invece, divenivano un ammasso di corpi celesti dotati di luce propria per quanto i proprietari o i locatari dell'appartamento consumassero senza discernimento l'energia elettrica.

I negozi su ambo i lati della strada risuonavano del gracchiare della gentaglia, solitamente brilla, ebbra di felicità da dopo mezzanotte.
Uomini e donne divorziati o col matrimonio sul punto di rovina, pensionati lagnoni, giovani della generazione fallita e perfino studenti delle scuole superiori.

Aleggiava nell'aria odore di urina, di muffa, di topi, di cibo cotto al vapore, di sashimi con salsa ponzu in avanzata decomposizione, di birra, molto probabilmente quella Asahi Super Dry, odore di tabacco bruciato del pensionato Watanabe e infine l'immancabile odore di arance candite della signora Ito.

Il fratello maggiore andava domandandosi come avrebbe conservato l'educazione di Shin-hye in un postaccio simile.

«Tu puoi fare tutto, puoi arrivare tardi e... e poi fare quello che vuoi, insomma, e io no. No! Comunque, perché sei arrivato tardi oggi?» distorse la bocca in segno di ripugnanza.

E senza ulteriori parole e senza che il fratello potesse darle almeno una plausibile spiegazione, la ragazzina, pressoché adirata, girò i tacchi e si andò a celarsi in camera sua.

L'appartamento preso in affitto era un bilocale di sessanta metri quadri, che non lasciava sufficiente spazio, nella sua prima adolescenza, a una ragazzina colta da sbalzi ormonali. Veniva colta anche da un'indicibile ansia, la quale la attanagliava durante la notte di ombre e di incubi, tra le vecchie bambole di seta della loro madre.

Il percorso da adolescente di Shin-hye si prefigurava lastricata di vetri infranti.

E Jungkook si dispiaceva.
Continuava a dolersi, quando sentiva di nascosto la sorella piangere.
Questa prorompeva in un pianto isterico, facendo dei versi gutturali e manifestava la propria rabbia, sì, perché era sola e limpida rabbia, come se fosse l'uragano Katrina.
Un attimo si sfogava sulle bambole di seta della madre e l'attimo dopo, col groppo di pianto, si scusava con quest'ultima.

Scusa, mamma.

Ormai era un rito a casa dei due fratelli, uno di quelli rigorosi tali di un appartamento come quello, dove oltre ai pianti miserabili e giovanili c'erano anche le animate liti tra un ragazzo violento e la sua fidanzata, la quale si vestiva a parer suo in modo oltraggioso, oltre i canoni della decenza.

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